Attualità

L’inchiesta . La lezione dei maestri di scuola «I ragazzi stranieri, già cittadini»

Nicoletta Martinelli giovedì 20 luglio 2017

«È naturale che l’esito di un processo di acculturazione sia l’accesso alla cittadinanza. Ed è un diritto di umanità permettere ai bambini di accedere a questo processo»: Ferdinando Ciani è insegnante di Scienze Matematiche nella scuola secondaria di primo grado da oltre trent’anni, ideatore della “Scuola del gratuito”, dove si sperimentano metodi educativi e didattici alternativi, a cominciare dall’abolizione dei voti. I suoi alunni nati qui da genitori stranieri o qui arrivati da un altro Paese, per lui sono già cittadini italiani e lo dovrebbero essere anche per lo Stato. «Mi sembra arrivato il momento di superare il concetto di patria e territorio nazionale per concentrarci sulla cultura ma senza mai dimenticare che la cultura – continua Ciani – è sovrannazionale, che si arricchisce continuamente. A scuola, i bambini si scambiano le loro conoscenze. Gli stranieri orgogliosi delle proprie tradizioni e desiderosi di condividerle tanto quanto sono pronti ad assorbire le nostre ».

Tutte le classi italiane di ogni ordine e grado devono fare i conti con una massiccia presenza di marocchini, cinesi, romeni, albanesi, pachistani. «Bambini – prosegue Ciani – che non di rado conoscono tre o quattro lingue, intellettualmente vivaci ma spesso con alle spalle esperienze deprivanti. La scuola può sempre fare di più per integrarli ma fa quello che può con il poco che ha». Un ventennio di ristrettezze economiche non aiuta e la scuola ha smesso da tempo di essere al centro del sistema nazionale sebbene sia il più importante incubatore di futuro.

«Nella formazione dei piccoli cittadini è l’esercizio della parola a diventare palestra di democrazia. E come diceva don Milani – cita Luciano Bertinato, insegnante elementare a Soave, con quarant’anni di attività alle spalle – è solo la lingua che rende uguali. Uguale è chi sa esprimersi e intendere l’espressione altrui». Imparare l’italiano è fondamentale per l’integrazione ma la scuola ha gli strumenti necessari a garantire questo apprendimento? Bertinato – che ha lavorato per lunghi anni con Mario Lodi nella “Casa delle Arti e del Gioco” di Drizzona (Cremona) ed è cofondatrice della Rete di cooperazione educativa “C’è speranza se accade @” – nutre poche illusioni: «I mediatori linguistici non esistono più, i bambini arrivano in classe digiuni della lingua e il primo dovere di tutti è impedi-« re che finiscano emarginati. Sono i bambini a fare il grosso del lavoro. Perché il dialogo proceda spedito e la conoscenza reciproca anche, l’insegnante dovrà favorire lo sviluppo di alcune importanti abilità sociali, per esempio – prosegue Bertinato – saper chiedere la parola in modo ordinato, aspettare il proprio turno per parlare e ascoltare senza interrompere. Senza tutto ciò non vi possono essere partecipazione, coinvolgimento e capacità di aprirsi alla conoscenza della nostra e dell’altrui cultura».

Sull’importanza della lingua punta anche Valter Casiraghi, oggi professore di Educazione Artistica alla scuola media Luigi Majno, a Milano, ma che per oltre quindici anni ha ricoperto il ruolo di facilitatore linguistico, una figura scomparsa dalla scuola italiana. «A fronte di un aumento esponenziale degli studenti stranieri, le figure che avrebbero dovuto facilitare il loro inserimento e l’integrazione in classe sono state più che dimezzate. Quest’anno, da noi, l’insegnante richiesto per aiutare un ragazzo che non sapeva l’italiano è stato usato per le supplenze. Che senso ha parlare di Ius culturae, pur essendo l’ottenimento della cittadinanza un diritto incontestabile, se poi mancano i mezzi per seguire questi studenti in maniera più incisiva perché, davvero, della nostra cultura siano intrisi?». Stesso problema – la lingua – anche al liceo con ricadute comprensibilmente più gravi.

«Si immagini un ragazzo appena arrivato dal Marocco o dalla Romania a cui si fa una lezione sulla letteratura del Trecento »: Antonietta Sguera insegna Italiano al Liceo Linguistico Pier Paolo Pasolini, sempre a Milano. «I ragazzi stranieri non fanno alcun mistero di sentirsi italiani quando tornano al Paese d’origine per le vacanze e di sentirsi albanesi, o tunisini, o pachistani quando tornano in Italia. Ma nessuno dei miei studenti pensa all’Italia come un Paese di transito, tutti vogliono restare qui per il resto della vita. Si sentono cittadini? Più di quanto – si risponde la professoressa – non si sentano molti loro compagni italianissimi che sognano di vivere all’estero».