Attualità

La giocatrice di rugby. Stefania, un capitano per risollevare l’Aquila

Alessia Guerrieri giovedì 8 marzo 2012
​Fango, rimmel e la filosofia dell’avanzare, sostenere e continuare. La regola d’oro nel gioco della palla ovale è più che un metodo di vita per Stefania Mannucci, il capitano della squadra femminile dell’Aquila Rugby, vicecampione d’Italia nella categoria seven. «In campo bisogna andare avanti fino a quando un compagno non ti mette a disposizione le sue mani per far continuare il percorso alla palla», spiega; un esercizio che si fa tanto sul manto erboso quanto fuori. Viso tenero e sguardo dolce, sminuisce la sua determinazione.Non l’ascoltano le sue compagne mentre, dai gradoni dell’unico campo agibile del capoluogo, racconta come lo sport sta rendendo normale una quotidianità che ormai a L’Aquila è tutt’altro che regolare. Eppure se le sue «sorelle e amiche» potessero sentirla forse ricorderebbero quell’allenamento che Stefania ha organizzato in mezzo al nulla, a due passi dalla tendopoli di Centi Colella, pochi giorni dopo il sisma. «Il più bello della mia vita – dice mentre giocherella con le dita –, era quella la sola cosa reale da fare, l’unico pezzo di normalità che ci faceva sentire vive e non vittime». Il terremoto? «Ci ha messo a nudo, è stato un placcaggio duro, ma da un contatto ci si rialza sempre, se non da solo, con l’aiuto di un giocatore».Mediano d’apertura, qui tutti la considerano una trascinatrice. Un punto di riferimento che, però, ogni tanto si rifugia, correndo, al santuario della Madonna Fore per pregare. Quello che ci manca spesso è l’umiltà, «il ringraziare la sera nelle preghiere per la giornata avuta – spiega – senza per forza sperare o chiedere per il domani». Parla mentre fissa lontano quel campo che, anche con temperature polari, ha diviso con la squadra maschile. Cresciuta in panchina, figlia e sorella di rugbisti, per Stefania la vita è cominciata di nuovo quando ha rimesso i pantaloncini, rimboccandosi le maniche per ricostruire dopo il 6 aprile la squadra femminile.Partite nella neve, nessuna certezza, container senza luce come spogliatoi, all’inizio neppure un allenatore. Poi però, la consapevolezza d’indossare la maglia nero-verde quando anche la tifoseria avversaria ti applaude con rispetto. «Lì – ammette – mi sono resa conto di appartenere a una città, a una storia non solo sportiva che impone di rialzarci». È un gioco di paradenti e fango, «ma anche con i capelli legati e senza trucco si è sempre le stesse: grintose e generose». Nessuna individualità, niente prime donne, nel gioco degli intervalli è l’intelligenza che vince, non solo la forza fisica.