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Covid. Remuzzi: «Vi spiego perché è l’ora del buonsenso»

Viviana Daloiso mercoledì 13 settembre 2023

Mascherine in un reparto di Terapia intensiva

Il Covid e le sue forme, che mutano senza il mutare dell’efficacia dei vaccini. La mascherina che, sì, andrebbe usata ancora con buonsenso, e con più attenzione specie con l’arrivo della stagione invernale, nei luoghi chiusi, a contatto coi fragili. La sanità che, solo in alcuni pezzi d’Italia, si fa trovare preparata alla sfida di un autunno più caldo del previsto, grazie al dettato del Pnrr e alla riorganizzazione della medicina di territorio che esso prevede e senza lo stanziamento di fondi straordinari (che servono, ma non bastano). E poi la presentazione dello studio di domani, Origin, «il più grande mai effettuato nel nostro Paese per capire la relazione tra i fattori genetici e lo sviluppo di una forma grave di Covid – spiega il professor Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri – e che segna un punto di arrivo e di ripartenza per Bergamo e la sua popolazione, oltre che per il mondo della ricerca, dopo le ferite mai rimarginate della pandemia».

Professore, a che punto siamo col Covid adesso? Sale la preoccupazione, se non il terrore, che la variante Eris possa tornare a far male. E si torna a parlare di mascherine…

Abbiamo due varianti nuove che stanno emergendo. Una, che viene da XBB.1.5 ed è una discendente di Omicron, si chiama EG.5, Eris per l’opinione pubblica (visto che – la cosa non smette di divertirmi – a scegliere questi nomignoli non è la comunità scientifica, ma i social network): è il ceppo ormai prevalente nel mondo e anche in Italia, presenta mutazioni sulla proteina spike che le consentono di evadere gli anticorpi neutralizzanti, risponde ai test diagnostici che possediamo, al trattamento con gli antivirali che possediamo e i vaccini, specie quelli aggiornati a XBB.1.5 già approvati dall’Ema e di cui entreremo in possesso per l’autunno-inverno, risultano efficaci nel contrastarla. L’altra, BA.2.86, ribattezzata Pirola, non è così diffusa: presenta molte mutazioni sulla spike, nel numero di una trentina, il che suggerisce prudenza, ma non è ancora abbastanza studiata. Le prime evidenze dicono che, anche in questo caso, i vaccini aggiornati siano in grado di contrastarla.

Possiamo dunque parlare di deja vu? Il virus cambia forma, noi lo teniamo sotto controllo?

Sì, siamo di fronte alle sue evoluzioni a partire da modifiche del ceppo Omicron, nemmeno comparabile per gravità a quello originale. Antivirali e vaccini, ripeto, restano efficaci. E su entrambe le varianti, come dimostrato in uno studio della Harvard University di Boston, anche se non siamo in possesso della pubblicazione definitiva.

Chi deve vaccinarsi?

Over 65, immunocompromessi, chi fa la dialisi, chi ha subito un trapianto, chi ha un tumore e sta facendo la chemioterapia, i soggetti fragili. Gli altri possono aspettare, anche se negli Stati Uniti è stato raccomandato a tutta la popolazione di procedere con la profilassi da nuovi vaccini.

Perché tutta questa preoccupazione?

Non ho risposte su questo, non è il mio mestiere. Posso però dire che servono tre cose: buonsenso, buonsenso, buonsenso. Non bisogna per esempio, a ogni nuova variante, correre a dire che sfugge alla risposta dei vaccini: non è così, come dimostrano gli studi e in particolare quello americano che ho appena citato. Non si può tornare a parlare con allarme della scuola, quando abbiamo scoperto e assodato che nelle classi la differenza non la fanno le mascherine, ma l’areazione. Occorre uscire dalla psicosi del Covid e vedere il Covid come tutte le infezioni delle alte vie respiratorie a cominciare dall’influenza: virus che richiedono atteggiamenti precauzionali. Primo: se ho sintomi, sto a casa. Secondo: se vado a trovare mia nonna in Rsa, indosso la mascherina chirurgica. Terzo: se frequento luoghi affollati, a cominciare dai mezzi pubblici, e ho a che fare con persone malate o fragili, indosso la mascherina Ffp2. Sento parlare di “mascherina sì” o “mascherina no”: non c’è una verità, non ci sono certezze, ci sono le circostanze.

E il sistema sanitario? Se comunque dovesse essere un autunno più “caldo” del previsto, abbiamo fatto i passi avanti che dovrebbero consentire agli ospedali di non entrare in affanno?

Li abbiamo fatti solo da qualche parte, e non perché ci siano stati più soldi, ma grazie alla volontà delle persone. Penso all’esempio di Mantova, ma anche a realtà presenti in Toscana, in Emilia: distretti, case di comunità che operano 24 ore su 24 e collegate con ospedali di prossimità. Al centro, il cittadino, che trova risposte a tutto, dagli esami del sangue alle faccende amministrative. Senza sovraccaricare i Pronto soccorso. Il problema è di sistema: serve una visione, serve capire che un Ssn che funziona è la base di un Paese che funziona. Si parla dei soldi che servono alla sanità, e che senz’altro ci devono essere; si parla di medici, che abbiamo, e di infermieri, che oggettivamente mancano. Ma senza questa svolta culturale, senza la cultura della salute come prerequisito di un Paese che cresce, non andiamo da nessuna parte.

Domani a Palazzo Lombardia la presentazione dello studio realizzato dall’Istituto Mario Negri “Origin”. Ci spiega di cosa si tratta?

Ho davanti agli occhi ancora un titolo del New York Times: “I giorni persi che hanno trasformato Bergamo in una tragedia”. Quei giorni terribili del 2020, che la mia città ha vissuto in maniera così devastante, sono stati il punto di partenza per questo lavoro che a Bergamo e all’Italia come scienziati dovevamo: provare a capire perché è stato possibile, e come, quello che è avvenuto. Abbiamo raccolto la storia sanitaria, le cartelle cliniche, tutte le informazioni possibili di oltre 10mila cittadini, soprattutto coloro che vivono nelle zone più colpite dalla prima ondata di Covid: Nembro, Albino, Alzano. Abbiamo contato sulla collaborazione e il finanziamento della Regione e dei Comuni. E abbiamo scoperto che esiste una correlazione, che documentiamo, tra determinati fattori genetici e la possibilità di contrarre una forma grave di malattia. C’è una ragione, cioè, per cui lo stesso virus in alcuni casi ha ucciso, in altri non ha causato nemmeno sintomi. Mettiamo questi risultati al servizio della comunità scientifica: per usare meglio le cure e i vaccini, per capire chi e come deve tutelarsi di più, persino per imparare a utilizzare quel buonsenso di cui parlavamo poco fa.