Attualità

Reportage. Istituti religiosi e comunità: porte aperte per salvare i minori

Claudio Monici venerdì 4 luglio 2014
Dioulde dribbla Bourahina e tira il calcio alla vecchia palla di cuoio giallo che finisce d’angolo sotto la panchina di cemento. Sono senegalesi, con quel sorriso puro che solo a 17 anni si può ancora conservare integro, anche se il loro è ammaccato dal vuoto non solo di qualche dente, ma anche dalla solitudine. Il gioco si ferma e Dioulde che al polso sinistro porta un braccialetto bianco che lo identifica con la sigla scritta a pennarello nero "83F", racconta la storia di un viaggio cominciato in Senegal attraverso il Mali, il Burkina, il Niger, e durato un mese.E poi quegli altri otto mesi trascorsi in Libia a riparare e lustrare scarpe, come lavoro. Questo racconta. È vago, però, quando gli domandiamo quanto ha dovuto pagare per attraversare il Canale di Sicilia: «Mio fratello (inteso come qualcuno che lo faceva lavorare e non come parentela, ndr), un giorno mi ha messo su un barcone e sono partito». E poi, sempre parlando in francese, aggiunge: "Travailler". Lavorare.Piazza san Pietro, scalinata della chiesa madre Madonna del Rosario, è qui che incontriamo i due ragazzi, identificati burocraticamente come «minori non accompagnati». Sono ospiti, insieme ad un’altra settantina di ragazzi africani, di alcune strutture messe a disposizione da vicariato, istituti religiosi, suore salesiane e carmelitane di Pozzallo.«Del resto qualcosa bisognava pur fare e subito per togliere i minori dal centro di accoglienza che ospita gli adulti», osserva il parroco don Vincenzo Rosana. Che ci tiene anche a sottolineare come «purtroppo, anche in questa occasione i mezzi di informazione non hanno aiutato, anzi si sono protesi a creare dell’inutile allarmismo come è accaduto con le storie sulla psicosi delle malattie infettive che potrebbero essere trasportate viaggiando e vivendo in quelle condizioni. E quando allora con un solo aereo che in poche ore trasporta centinaia di persone da un continente all’altro che cosa dovremmo dire?», sentenzia il parroco di Pozzallo. Sono più di 63mila gli immigrati arrivati in Sicilia dall’inIzio del 2014. Più di tutti quelli arrivati nel solo 2011. E di tutti questi, circa 13mila migranti restano ospitati in 170 località sparse su tutta l’isola. Nelle canoniche, come a Pozzallo, ma anche in strutture alberghiere e agriturismi, oppure come nel campo di baseball americano che abbiamo visitato a Messina. E il totale dei minori non accompagnati raggiunge la "modica" quota di 3.000 ragazzi.Le vite di Dioulde e dell’amico Bourahina scorrono dentro a questo mare di numeri così alti che ci si domanda: quanto tempo dovranno impiegare le due commissioni esistenti per tutta la Sicilia, a Trapani e a Siracusa, incaricate di vagliare le richieste di asilo politico o di rilascio di un permesso di soggiorno per ognuna di quelle vite? Un anno? Due anni? E se non possono essere regolarizzate queste vite di che cosa potranno vivere nella lunga "immobile" loro attesa, quali desideri si potranno concedere, oltre a quell’accoglienza che garantisce loro vitto e alloggio? Nelle grandi città Siciliane, lo abbiamo visto a Messina, ma non solo, l’accattonaggio ai semafori è già più che evidente e insistente. Del resto questo viaggio nel Canale di Sicilia non termina con la sola salvezza personale che avviene con lo sbarco sull’isola protetto dalla missione "Mare nostrum". Perché la terra ferma, l’Italia che si congiunge con l’Europa, non è ancora stata raggiunta. E allora: senza un permesso di soggiorno non si può lavorare, quindi per gli uomini non resta che affidarsi al lavoro nero, mentre le donne finiscono sulla strada della prostituzione. Fenomeni già più che evidenti e che vengono sottolineati da più parti.Il vice parroco di Pozzallo viene dalla Repubblica Democratica del Congo, è qui dal 2011. Si chiama don Bejamin Mujissa, 40 anni. A Pozzallo ci è venuto dritto dritto dalla sua città di Butembo Beni, foresta della regione dei Grandi Laghi.«Questo è il risultato del problema Africa, ma non solo. Cominciamo a farci la domanda del perché queste persone vengono in Europa e non cosa ci vengono a fare. I problemi sono sempre gli stessi e non vengono sciolti: guerra, fame e mancanza di un lavoro sicuro. Tutto qui – osserva don Benjamin in un italiano da dieci e lode –. I nostri giovani scappano perché non trovano lavoro. Scappano perché cercano una speranza di vita. Quello che qui si sta facendo qualcosa di grande e unico, l’accoglienza. Farli uscire dal pericolo del mare e dare loro un posto per riposare è una grande cosa. Poi io mi auguro che le grandi autorità internazionali sappianmo anche allargare al bisogno garantendo a queste persone un futuro certo».