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Elezioni. Il voto di protezione del Sud in difesa di Reddito e Pnrr. Mafie dimenticate

Marco Iasevoli sabato 10 settembre 2022

Sin quando non se ne andranno gli ultimi turisti, sulle coste e nei borghi appenninici del Sud la campagna elettorale, semplicemente, non esiste. D’altra parte, candidati davvero dei territori ce ne sono pochi, le segreterie romane hanno usato il Meridione come feudo per gli alti dirigenti nazionali - veneti, lombardi, emiliani, friulani, piemontesi... - bisognosi di seggi sicuri.

Al massimo arriva dalle grandi città l’eco lontana di accordi e polemiche dentro i partiti. Di parole di fuoco tra leader. Le promesse sono avvolte dalla nebbia di una crisi, quella sì, ben presente nel numerone che appare sulle bollette energetiche. Le "minacce", però, la nebbia la sfondano e si rendono ben visibili. Anche se a volte può sembrare che disincanto e disinteresse divorino ogni metro di terra dopo il Garigliano, la verità è che poi, come ovunque nel Paese, quando si bada alla politica, si bada all’essenziale.

E quindi si capisce bene che «rimodulare il Reddito», il nuovo mantra dei politici di ogni ordine e grado, vuol dire metterci dentro i forbicioni; si capisce bene che quando si vuole «rinegoziare il Pnrr», altro mantra della campagna elettorale, si rimettono in discussione anche gli obiettivi e le risorse fissate per il Meridione.

Insomma: passione se ne vede poca, ma mano a mano che gli ombrelloni si chiudono, prende forma la postura elettorale del Mezzogiorno. Un voto difensivo, "di protezione".

«Il voto al Sud è storicamente più mobile di quello del resto del Paese e in diverse circostanze si è scostato dall’andamento nazionale», argomenta Salvatore Vassallo, ex parlamentare e direttore dell’istituto Cattaneo, cercando di dare una traccia di ricerca, un’ipotesi di lavoro per prevedere cosa e chi andranno a scegliere gli elettori meridionali.

Vassallo prende a riferimento, non a caso, l’andamento di M5s nel 2013, nel 2018 e alle Europee del 2019. Dopo la fine del governo Monti il forte risultato pentastellato fu sostanzialmente omogeneo nelle diverse aree del Paese. «Non erano un partito meridionale», spiega Vassallo.

Ma cinque anni fa nel 32,68% nazionale dei grillini incise in modo fondamentale la media del 46% raggiunta nel Mezzogiorno, con picchi sopra il 50 e il 60% in diversi collegi campani, pugliesi, siciliani e sardi. Una valanga. L’anno successivo, il 2019, l’anno del boom della Lega alle Europee, M5s crolla al 17% nazionale ma è premiato al Sud da un risultato medio del 29%, restando saldamente primo partito. «Il voto di destra è andato via, ma il radicamento nel Mezzogiorno è rimasto». Sono flussi da cui non si può scappare, per provare a fare delle previsioni. Numeri che poi vanno incrociati agli elementi politici. A quello che anche Vassallo chiama «effetto Conte», che sta polarizzando molto la sua campagna elettorale sui temi che possono mobilitare fette compatte di elettorato meridionale: la "blindatura" del Reddito di cittadinanza, l’accusa agli altri partiti di voler portare al Nord i soldi del Pnrr. Se, come prevede il direttore del Cattaneo, M5s terrà, oggettivamente nei collegi uninominali «se ne avvantaggerà il centrodestra», anche perché, altrettanto oggettivamente, i risultati del centrosinistra alle amministrative sono «sopravvalutati».

I freddi numeri vanno uniti agli umori. Quasi la metà dei meridionali recatisi alle urne il 4 marzo 2018 hanno scelto M5s. In cinque anni ci sono stati errori, delusioni e disillusioni. E scissioni. Sciccioni da destra. Scissioni da sinistra. Infine, la scissione più dolorosa, quella al centro di Luigi Di Maio, che nel 2018 ha conquistato il collegio della sua Pomigliano con il 63,42% dei consensi, e ora, cinque anni dopo, si è trovato nelle condizioni di dover chiedere asilo al centrosinistra a Napoli centro, perché nei luoghi natii l’astio nei suoi confronti si è rivelato insuperabile. E quell’astio verso chi se n’è andato per provare a diventare «sistema» è anche la fortuna di Conte e del "nuovo" M5s. Perché poi gli elettori si svegliano cinque anni dopo e, sebbene delusi dal Movimento cui hanno concesso un plebiscito, si guardano intorno e scattano una fotografia: Salvini l’hanno "provato" nel 2019 ma ora dice «stop al Reddito», il centrosinistra tiene ma non scalda i cuori, nemmeno Fdi convince fino in fondo perché la classe dirigente appare un semplice travaso di volti stranoti provenienti da Forza Italia.

«Fdi è più forte al Nord che al Sud – conferma Antonio Noto, sondaggista e direttore di Ipr marketing –, è a Nord che sta erodendo consenso alla Lega». Se n’è accorto lo stesso Salvini - continua Noto - che negli ultimi giorni è tornato quasi a una campagna "settentrionalista", il cui simbolo è la proposta di portare un ministero a Milano.

La priorità, per il Carroccio, sembra ormai essere difendere i fortini al Nord. La Lega nazionale è già quasi un ricordo, e anche questo aiuta il ritorno di Conte. «Il Reddito di cittadinanza – conclude Noto – non è centrale nel dibattito, però ha la forza di mobilitare». Mobilita chi lo prende e i nuclei familiari che ne beneficiano. Decine di migliaia di persone che vedono un solo partito dire «non si tocca». E questo alla fine conta, specie negli ultimi giorni prima del voto.

Eccolo quindi il volto di un «voto di protezione». Definizione generica, che non raccoglie tutte le sensibilità e sfaccettature di territori complessi ed eterogenei. Che tiene fuori le borghesie dei centri urbani e delle metropoli, divise tra il voto utile chiesto da Letta e l’attrattiva di Calenda. Ma che comunque disegna una sottile linea rossa da Napoli a Palermo. Voto difensivo, voto per respingere "minacce".

Mentre le grandi questioni restano non affrontate. Le elenca Mario Di Costanzo, segretario della Consulta campana delle aggregazioni laicali, ex assessore al Patrimonio a Napoli: c’è da affrontare «la lotta alle disuguaglianze come affermazione piena della dignità della persona e del principio del bene comune»; e c’è «la lotta alle mafie, la grande assente nel dibattito politico». Già, nessuno ne parla. Eppure, osserva Di Costanzo, sarebbe interesse e dovere della politica, dei partiti, rappresentare «esperienze virtuose di ripristino della legalità contro le prevaricazioni dei prepotenti». Un silenzio allarmante che è già un monito per il dopovoto.