Attualità

La morte di Giuseppe De Donno. Il sogno (irrealizzato) del medico in prima linea

Vito Salinaro mercoledì 28 luglio 2021

Il dottor Giuseppe De Donno

Giuseppe De Donno diventa direttore della Pneumologia dell’ospedale Poma di Mantova nel novembre 2018. Poco più di un anno prima di quello che diventerà lo sforzo più sacrificante della sua vita: affrontare la pandemia da Sars-CoV-2 nella prima area occidentale ad esserne investita. Assieme a tutto il personale dell’ospedale ingaggia una lotta impari contro uno sconosciuto parassita refrattario alle terapie e che, quando non uccide, spedisce i pazienti più deboli nel limbo della terapia intensiva.

Mentre medici e infermieri diventano prigionieri di reparti e corsie, De Donno rifiuta di rassegnarsi alla morte come abitudine quotidiana, e prova ad andare oltre i protocolli ordinari. Cerca alternative alle pratiche conosciute e poco efficaci. Nel pieno del mare in tempesta, sperimenta l’infusione di plasma convalescente nei pazienti che hanno vinto il Covid-19. Del resto, la storia della medicina annovera casi di successo in questo senso per altre patologie. Nasce la speranza del “plasma iperimmune”, adottata e ribattezzata come un elemento provvidenziale dall’immancabile ondata di social – spesso affiancati da autorevoli organi di informazione –, i quali, anticipando i tempi della scienza, e con sprovveduta autorevolezza, si affrettano a concedere una preventiva patente di legittimità a quella che è solo una sperimentazione iniziale, un tentativo, un’ipotesi praticabile ma da provare e che, su alcuni pazienti, funziona. Nascono persino delle gelosie sulla scelta delle strutture ospedaliere che, per le autorità sanitarie, devono guidare la sperimentazione. Il primario del Poma ne soffre, alcuni suoi colleghi parleranno più avanti di un «uomo disilluso, arrabbiato, desideroso di giustizia…».

Crede fermamente in quella cura ma nulla può quando, lo scorso 8 aprile, l’Aifa e l’Istituto superiore di sanità sono lapidari nel decretare, al termine dello studio "Tsunami" (27 centri clinici e 487 pazienti arruolati), che «non è stata osservata una differenza significativa tra il gruppo trattato con plasma e quello con terapia standard». De Donno soffre. E decide, a 54 anni, di farsi da parte. Poche settimane fa, «stanco e logorato», raccontano i suoi colleghi, lascia la scrivania di primario dell’ospedale dove era entrato nel 1998, per tornare a fare il medico di famiglia a Porto Mantovano: «Ho sottratto troppo tempo alla mia famiglia» dichiara. Sulla vicenda del plasma «ho la coscienza a posto, ero solo interessato a salvare più vite possibile». Martedì si è tolto la vita nella sua casa di Curtatone (Mantova).

Gli ex colleghi del Poma parlano di un «vuoto incolmabile», di «un professionista eccellente e di grande umanità», da ricordare «per la sua completa abnegazione sia da medico sia da primario, con un’attenzione quasi spasmodica alle necessità e al benessere dei pazienti». Se ne va un uomo stimato e ben voluto. Che ha coltivato un sogno irrealizzato pur tra critiche feroci. Ma che ha saputo osare, quando c’era ben poco da fare. In quel mare in tempesta.