Attualità

STORIE. Lotta al pizzo: «Dire no è possibile»

Antonio Maria Mira domenica 31 gennaio 2010
«Ora ci sentiamo meno soli. Rafforzati nelle nostre scelte». Antonio, Nino e Renzo sono «molto soddisfatti» della decisione di Confindustria di sposare in pieno la linea dura contro il pizzo e l’illegalità. Antonio, Nino e Renzo sono, infatti, tre imprenditori che da tempo hanno detto "no" alla criminalità organizzata, scegliendo la strada della legalità, pagando di persona. La scelta della presidente Marcegaglia di obbligare tutti alla denuncia, la definiscono «un aiuto meraviglioso». Loro, infatti, non si "pentono" del cammino fatto e ripetono quasi in coro «rifaremmo tutto, perché è in gioco la nostra libertà».Antonio Diana è presidente dell’Erreplast, impresa casertana che si occupa di riciclaggio delle bottiglie di plastica. Impresa pulita in un mondo, quello dei rfiuti in Campania, da sempre percorso da collusioni e sporchi affari. Lui ha scelto la strada opposta, nel nome del padre, anche lui imprenditore, ucciso nel 1985 dal piombo del clan dei casalesi, proprio per aver detto di "no" alla loro imposizioni. Come restare "puliti"? «Non è facile ma non è neanche impossibile. È il risultato di una coerenza di vita. Bisogna fare delle rinunce, per difendere la nostra libertà. E questo sì che ne vale sempre la pena!». Già, perché secondo Antonio «la camorra mette a rischio la libertà d’impresa e di mercato: o uno è costretto a omologarsi o è fuori». Dunque quello di Confindustria «è un segnale forte, coerente e concreto, una risposta agli sforzi profusi da magistratura e forze dell’ordine. A tutela delle imprese legali». L’espulsione e la sospensione per le imprese disoneste «sono un fortissimo deterrente e un elemento di giustizia verso quelle che operano correttamente». Ma ora serve un passo avanti. «Soprattutto nei settori dove c’è l’intervento pubblico servono dei percorsi che favoriscano gli imprenditori onesti».Anche Nino De Masi, imprenditore calabrese di Rizziconi condivide «in pieno» la scelta di Confindustria. «Gli imprenditori hanno solo da perdere se scelgono di non denunciare. Chi è onesto deve aderire altrimenti diventa vittima della criminalità, perde libertà e dignità». Lui da molti anni è esempio di legalità. Prima il "no" al racket (non sono mancati attentati...), poi la lotta all’usura delle banche (è in corso un importante processo), quindi l’appoggio al volontariato, come il sostegno alla cooperativa "Valle del Marro" che gestisce terreni confiscati alla ’ndrangheta. «Ora mi sento rafforzato nelle mie scelte, ma bisogna passare dal dire al fare in maniera concreta, anche a costo di perdere iscritti». In primo luogo «ci vorrebbe un più stretto controllo per evitare che oltre che imprese vittime ci siano anche imprese criminali». Bisogna «essere più autorevoli e credibili», ma serve anche «un accordo forte tra istituzioni e associazioni territoriali degli imprenditori che vada oltre la certificazione antimafia che non è più sufficiente. Un accordo che ci permetta di fare delle scelte giuste e poterci tutelare, per moralizzare le nostre organizzazioni. Sono quindi d’accordo che si faccia una white list delle imprese perbene. Essere onesti così converrebbe davvero, per avere più opportunità di lavoro, una sorta di "raccomandazione" dello Stato. Sarebbe una vera rivoluzione». E fa un’ultima notazione. «Questi requisiti morali non dovrebbero però valere solo per noi imprenditori del Sud, ma anche per le grandi imprese del Nord che vengono a fare affari da noi e anche per quelle che operano nelle regioni settentrionali: la mafia ormai è anche lì».C’è forza e convinzione in questi imprenditori "puliti". Come Renzo Caponetti, titolare di un’azienda di prodotti alimentari a Gela. La sua è una scelta che viene da lontano, dagli anni ’80, «quando ho cominciato a denunciare le richieste di pizzo». Poi nel 2005 la nascita dell’associazione antiracket della quale è da allora presidente, gli attentati anche fisici, e da allora una vita sotto scorta. Ma ne valeva la pena. «Da allora gli imprenditori che hanno denunciato sono diventati più di cento. All’inizio non si volevano farsi vedere, oggi hanno finalmente coraggio: insieme si può. Gela era la città della mafia oggi è la città dell’antimafia». Certo è stata dura. «I mafiosi all’inizio sembrano darti una mano, ma poi piano piano diventano loro i proprietari». Per questo anche per lui la decisione di Confindustria «non può che aiutarci, ci rafforza. La collusione è la grande piaga anche tra di noi. Ma ci vuole pulizia anche tra i colletti bianchi e dare più forza e mezzi alle forze dell’ordine e alla magistratura». E «una corsia preferenziale per chi denuncia, facendo lavorare loro e non chi paga il pizzo: non assegnare gli appalti ai mafiosi ma a imprese oneste e coraggiose». Insomma, «indietro non si torna: lottare e convincere tutti ad andare a denunciare. È la nostra libertà ad essere in gioco».