Attualità

Pavia. «Avvocato gay finge di essere padre di un bimbo nato da madre albanese»

Vincenzo R. Spagnolo martedì 31 gennaio 2017

«Per provare che l’asserita paternità era fasulla, siamo ricorsi all’esame del Dna. Ma già la madre biologica del bimbo aveva dichiarato, a noi e all’autorità giudiziaria, che l’uomo che si professava padre le aveva promesso 70mila euro in cambio dell’assenso... ».

È il dirigente della Digos pavese Beniamino Manganaro a riassumere ad Avvenire i contorni di un’indagine delicata, conclusasi nei giorni scorsi con tre richieste di rinvio a giudizio, formulate dal pm Andrea Zanoncelli della procura di Pavia, a carico di altrettanti indagati: un avvocato 38enne, il suo compagno di nazionalità albanese e una donna albanese di 25 anni. Il reato contestato, in concorso, è «alterazione di stato civile» di un neonato, punibile (secondo l’articolo 567 del codice penale) con la reclusione da 5 a 15 anni. In base alla ricostruzione effettuata dagli investigatori, la vicenda è iniziata nell’autunno del 2015, quando una 25enne residente in Albania e in stato di gravidanza sarebbe stata invogliata a venire in Italia. La donna arriva nel Pavese e contrae matrimonio con un avvocato, col rito civile.

A fine gennaio, la giovane partorisce, in una struttura del Pavese, un bel bimbo che l’avvocato va a registrare all’anagrafe come figlio di entrambi. Ma il paese è piccolo e, come recita l’adagio, la gente mormora. C’è chi trova singolare quella paternità, visto che l’avvocato non ha mai fatto mistero della propria omosessualità e da tempo convive col proprio compagno, di nazionalità albanese. Qualcuno chiama in Questura: «Siamo partiti da una fonte confidenziale, poi abbiamo svolto accertamenti raccogliendo dichiarazioni del personale sanitario del luogo dove era avvenuto il parto, dell’ufficiale di stato civile che ha celebrato il matrimonio... E abbiamo incrociato i dati su partenze e arrivi dal territorio nazionale, raccogliendo altri elementi», spiega il commissario capo Manganaro. Poco dopo il parto, la madre fa rientro in Albania (insieme a quello che, si scoprirà poi, è il vero padre biologico) lasciando il bimbo in casa dell’avvocato.

Qualche mese dopo ritorna: «Sospettiamo che fosse una mossa per dissipare i dubbi sull’effettività del legame », ragiona il commissario capo. I poliziotti della Digos monitorano discretamente l’abitazione dell’avvocato, verificando che vi risiedono diverse persone: lui e il suo compagno, la mamma e il bimbo e altri due uomini. Nel corso delle indagini, gli agenti osservano pure il profilo Facebook del legale: «Ci insospettiva il fatto che l’avvocato e il compagno pubblicassero loro foto insieme al bimbo, ma mai con la madre».

A luglio, il colpo di scena. Quando già erano partite dalla procura le richieste di elezione di domicilio per l’esame del Dna, la mamma si presenta in Questura col vero fidanzato e confessa tutto: «Ci hanno riferito di aver accettato perché indigenti. Erano stati promessi loro 70mila euro – spiega Manganaro –, ma ne avevano ricevuti solo 5mila, con versamenti in Albania attraverso il circuito Western Union, di cui hanno esibito le ricevute ». I due raccontano anche della coabitazione nell’affollato appartamento del legale e dei litigi continui fra loro e la coppia composta dall’avvocato e dal compagno. Dalle loro dichiarazioni, confermate davanti al magistrato, emerge un quadro familiare privo di punti di riferimento per il neonato, che «si trovava alternativamente a dormire una sera in stanza con i veri genitori e un’altra assieme all’avvocato e al suo compagno ». Dopo le ammissioni dei genitori biologici, arriva il test del Dna, disposto dall’autorità giudiziaria, a confermare i sospetti.

A quel punto, su disposizione del Tribunale dei minori di Milano, il bambino è stato allontanato dall’abitazione e collocato in una struttura protetta, insieme alla madre. Sarà il giudice per l’udienza preliminare a fissare una data in cui decidere se avviare il processo, come chiede la procura, o prosciogliere gli indagati, rappresentati dagli avvocati Niccolò Angelini, legale del 38enne italiano, e Simona Bozzi, che difende la madre albanese. Comunque vada, il caso pare destinato a far discutere. In tempi in cui c’è chi, per aggirare il divieto posto dalla legge italiana, si reca all’estero e ricorre a costose pratiche di maternità surrogata, la vicenda accaduta nel Pavese fa temere che si possa ricorrere a espedienti d’altra natura per soddisfare il proprio 'desiderio di paternità'. Un’ipotesi che gli inquirenti non hanno contestato: «Abbiamo agito sulla base degli elementi di prova – conclude il dirigente della Digos –. E il tribunale ha pensato a tutelare il minore, che in base a quanto accertato viveva in un ambiente non idoneo alla sua crescita».