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IL CASO IN BRIANZA. «Il Jihad non è reato se resto progetto»

Nello  Scavo giovedì 7 ottobre 2010
Per finire in galera non basta progettare un attentato se poi non si passa alla fase preparatoria. Ne consegue che se il piano «non è riuscito a superare la soglia ulteriore e a concretizzarsi», gli imputati vanno assolti. Le motivazioni con cui il tribunale di Monza ha graziato il 6 luglio due presunti terroristi islamici fanno già discutere. «Se gli stessi argomenti adoperati dai giudici monzesi – ha commentato il sottosegretario agli Interni Alfredo Mantovano – fossero trasposti in un qualsiasi processo per associazione mafiosa, l’esito sarebbe la sistematica assoluzione di ogni imputato». Rahid Ilham, predicatore dell’associazione culturale “Pace”, e Abdelkader Ghafir, un frequentatore dello stesso centro, erano stati arrestati nel dicembre 2008 per associazione a delinquere finalizzata al terrorismo internazionale e di concorso esterno nell’organizzazione terroristica al Qaeda. Entrambi erano ritenuti appartenere a una cellula terroristica operativa a Macherio (Milano) che stava progettando attentati esplosivi. L’inchiesta si era basata sulle intercettazioni telefoniche e ambientali nel corso delle quali Ilhami e Ghafir erano stati sentiti rivendicare la loro appartenenza ad al-Qaeda e progettare attentati contro il supermercato Esselunga di Seregno (Milano), i parcheggi di un locale notturno adiacente, le caserme dei carabinieri di Desio e Giussano, in Brianza, l’ufficio immigrazione della questura di Milano e una caserma dell’esercito che la Digos in una relazione indicava potesse essere la Santa Barbara, all’ingresso della quale lo scorso 12 ottobre il libico Mohammed Game ha fatto esplodere una bomba ferendo solo se stesso.Non vi è dubbio, scrivono i giudici nella sentenza depositata ieri, «che vi fosse un pieno accordo tra i due imputati per la commissione di uno o più atti di violenza a fini di terrorismo in danno di persone». Il predicatore, in particolare, si era «autoindottrinato» tramite «internet o tramite libri e pubblicazioni», tentando poi di divulgare il materiale scaricato dal web per educare alla jihad altre persone tra cui «il proprio figlio». Un caso di “mujaheddin fai-da-te” sprovvisti del necessario «per compiere un attentato; non una bombola di gas, non una tanica di benzina , non armi». Nel loro ragionamento i magistrati del tribunale monzese richiamano la giurisprudenza della Cassazione, secondo la quale l’adesione all’ideologia jihadista non basta a ritenere gli imputati come membri di al-Qaeda. Inoltre in questo caso manca «ogni collegamento con organizzazioni terroristiche sia in Italia che all’estero. Non risultano contatti con persone indagate o processate per fatti di terrorismo». Tutto questo nonostante il piani dei due imputati avessero «carattere di pericolosità» col rischio di «piangere vite umane».Per spiegare il controverso verdetto i giudici hanno sostenuto che la vicenda non rientra «nell’ambito della repressione penale ma va ascritta all’ambito della prevenzione, sulla quale la Corte d’Assise non può operare interventi».Scelte del genere equivalgono «a vanificare la legislazione italiana di contrasto al terrorismo e – rincara Mantovano – a porre in pericolo le nostre comunità».