Attualità

La storia. L'odissea a lieto fine di due 16enni nigeriani

Lucia Bellaspiga mercoledì 9 settembre 2015
Nella stessa notte in cui il silenzio ineluttabile del piccolo Aylan, morto su una spiaggia turca, costringeva il mondo a vedere, su un’altra riva, quella di Reggio Calabria, la voce di un neonato gridava l’inizio di una vita: Mosè (lo chiameremo così) veniva al mondo in Italia. Era arrivato ad aprile coi barconi, navigando nelle acque sicure del ventre di sua madre, ignaro del mondo spaventoso di là fuori, dei patimenti e delle fughe con cui sua mamma e suo papà cercavano per lui salvezza. Fuggiti dalla Nigeria, erano stati accolti nella casa di accoglienza della Comunità Papa Giovanni XXIII per minori, perché loro stessi sono poco più che bambini, e lì sono diventati genitori. Partiti dal loro Paese a 15 anni, lei cristiana e lui musulmano, hanno affrontato ogni pericolo, decisi a conquistarsi il diritto di stare al mondo. «Una storia di coraggio e di amore che dovrebbe insegnarci molto», notano i volontari della Papa Giovanni, da molti mesi impegnati senza sosta per accogliere i migranti quando arrivano spossati e privi di tutto. «Questi due ragazzini, stretti uno all’altra, hanno percorso a piedi le rotte verso l’Europa, sono caduti nelle mani dei trafficanti di uomini, hanno visto e subìto di tutto ». Infine sono arrivati in Libia, a un passo dalla meta, ma il peggio doveva ancora venire. Lì il ragazzo ha lavorato come schiavo fino a raggiungere la cifra per la traversata, mentre lei lavorava per la loro sopravvivenza. Ma una sera chi la riportava a casa in macchina ha bloccato le portiere e l’ha rapita nel deserto... «Così il ragazzino ha dovuto lavorare anche per il riscatto».  Sono tantissime le minorenni che, in arrivo dalla Libia, raccontano ciò che ormai lì è la 'normalità', storie di sevizie e ogni sorta di violenze, fino a quando, ormai 'usate' e 'inservibili', possono prendere il largo e sperare di non affogare. «Questo avviene nove volte su dieci, in Libia, e per tre motivi – spiega Giovanni Fortugno, responsabile della Casa per minori della Papa Giovanni, non ancora ufficialmente inaugurata eppure già piena – : perché sono nere, perché sono bambine cristiane e perché in Libia è diffuso un feroce razzismo verso gli africani». I due ragazzini, uniti solo dal loro volersi bene e dalla forza delle loro diverse fedi, hanno superato ogni prova e ad aprile, toccato il suolo calabrese, non credevano ai loro occhi quando la gente del posto accorreva con calzature e bevande, ma soprattutto con l’espressione di chi accoglie, non di chi scaccia. E l’altra notte, la notte in cui Aylan è diventato il peso delle nostre coscienze, hanno dato alla luce il loro Mosè, tra gioia e stupore. «Essendo di fedi diverse, si sono accordati scegliendo dalla Bibbia il nome di un uomo rinomato per la sua saggezza – sorride Fortugno –. Il papà abbraccia tutti per la felicità ma è anche preoccupato: come farò, ci ha chiesto, a essere padre io che sono così piccolo, ma gli abbiamo risposto che lo avremmo fatto insieme. Quel bambino ormai è il figlio di tutti...». Dei ragazzini scappati dall’Eritrea, dalla Siria, dal Gambia, dal Bangladesh... Perché, come ci dicono, quella di Reggio Calabria è la 'Casa della mondialità', dove i poveri sono poveri, i fratelli fratelli, senza preferenze se non il maggiore bisogno. «Il Papa ha chiesto di prenderci una famiglia per ogni parrocchia, non ha detto di scegliere la migliore», ricorda Fortugno. Che ieri ai suoi bambini eritrei, di fronte alle commoventi immagini di accoglienza ai fratelli siriani viste in tivù, doveva trovare risposte a una domanda: «Perché noi no?». «Il nostro concetto è accogliere tutti. E poi condividere la vita con loro giorno e notte,  diventare la loro famiglia. A questi bambini basta davvero poco per essere felici». Tra pochi giorni comincerà la scuola e per qualcuno è il sogno che si avvera. «Abbiamo una bambina nigeriana di 13 anni, la più sofferente, che ha subìto grandi tragedie. Ieri l’abbiamo iscritta e davanti alla scuola è scoppiata a piangere. Di colpo aveva rivisto l’ultima immagine di sua madre che le chiedeva perché volesse andare in Europa e lei gliel’aveva spiegato: voglio anch’io andare a scuola».  Forse oggi molti l’avranno dimenticata, ma qui ad aprile trovò rifugio anche la bimba del Gambia che commosse il mondo per aver visto sparire tra le onde mamma, papà e sorellina. Oggi ha una famiglia italiana.