Attualità

Storia. A 103 anni è Cavaliere: il coraggio di Basilio Pompei, ex prigioniero di guerra

Vincenzo Grienti venerdì 2 luglio 2021

Basilio Pompei, 103 anni, tra i primi a farsi vaccinare in RToscana

Basilio Pompei, classe 1917, di Pontassieve, in provincia di Firenze, ha avuto coraggio da vendere rispondendo alla chiamata alle armi e andando a combattere al fronte durante la Seconda guerra mondiale. Ne ha avuto ancora di più quando, da giovane, come molti nonni d’Italia, scelse la via più difficile: dire “no” al nazi-fascismo e subire l’internamento e la prigionia.

Arruolato nel 10mo Reggimento Fanteria, dopo l’armistizio venne catturato a Durazzo, sul fronte albanese, e deportato prima a Biala Podlaska, in Polonia, poi nello stammlager di Görlitz, al confine tra la Polonia e la Germania, quindi a Sagan, sempre in Polonia, Reichenbach e infine a Ratisbona, nel sottocampo del KZ di Flossenbürg.

Da sinistra Orlando Materassi, la sindaca Monica Marina, Basilio Pompei, il sindaco Passiatore e Enzo Orlanducci - Arnp

Il soldato Basilio Pompei faceva parte degli oltre 650.000 Internati militari italiani (Imi) che, essendosi rifiutati di collaborare con il nazifascismo, vennero trasferiti nei lager del Terzo Reich, affrontando venti mesi di internamento in condizioni disumane, costretti a subire lavoro coatto, umiliazioni, fame e le più tremende vessazioni. I due anni trascorsi nei lager furono per Pompei lunghi e drammatici, fino al 27 aprile 1945, giorno della liberazione e del suo rocambolesco ritorno in Italia.

“Quella di Basilio Pompei fu certamente una scelta coraggiosa, eroica e non scontata: dire NO alla collaborazione con i nazi-fascisti poteva costare la vita – spiega Enzo Orlanducci, Presidente dell’Anrp, l’Associazione nazionale reduci dalla prigionia, dall’internamento, dalla Guerra di Liberazione e loro familiari. - Eppure lui, come altre decine di migliaia di soldati italiani, scelse la strada più pericolosa. Quanti si rifiutarono di aderire vennero considerati dai tedeschi dei traditori, internati nei lager e sfruttati come lavoratori coatti per l’economia del Terzo Reich. Il NO! di Basilio Pompei, così come quello degli altri Internati militari italiani fu una scelta volontaria di coscienza” aggiunge Orlanducci.

Una “Resistenza senz’armi”, ossia il primo passo verso la riconquista della libertà.

Anche per questo il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, su proposta dell’Anrp, ha conferito, motu proprio, l’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine “Al Merito della Repubblica Italiana”. La consegna del riconoscimento è arrivata attraverso il Prefetto di Firenze, Alessandra Guidi, alla presenza dello stesso Enzo Orlanducci e del Presidente dell’Anei Orlando Materassi, del sindaco Monica Marini di Pontassieve e del primo cittadino di Dicomano Stefano Passiatore. Un riconoscimento avvenuto in un momento particolare per l’Italia e per il mondo colpito dall’emergenza sanitaria.

La vita degli internati militari italiani in un campo di prigionia - Arnp

La cerimonia di conferimento della medaglia a Basilio Pompei, che compirà 104 anni il prossimo settembre, si è svolta nei giorni scorsi tra gli ospiti della Residenza sanitaria assistita “Villa San Biagio” di Dicomano, in provincia di Firenze. Una testimonianza di speranza, quella del signor Basilio, non solo perché è stato tra i primi a sottoporsi alla vaccinazione anti-covid in Toscana ma perché resta un esempio di resilienza e di incoraggiamento per la comunità e per le nuove generazioni, chiamate a fare memoria del tempo presente caratterizzato dalla pandemia e di quello passato che ha visto uomini come l’ex soldato di fanteria combattere per la libertà.

Basilio Pompei e gli altri 650mila Imi rischiarono immediatamente la loro vita nel momento in cui si rifiutarono di aderire al nazi-fascismo. “Credere, obbedire e combattere” era il motto di quei giovani inquadrati, fin dall’infanzia, nelle formazioni fasciste dei balilla e dei giovani fascisti e lo stesso concetto di Patria, all’apice di ogni loro aspirazione ideale, dovette essere rielaborato.

Il loro “NO!” fu il primo passo verso la riconquistata libertà di pensiero. Altri giovani come Basilio si trovavano al di là dei confini italiani. Chi nella Francia meridionale, in Corsica, in Croazia, in Dalmazia, in Albania, in Grecia, nelle Isole Jonie e in quelle dell’Egeo furono abbandonate a se stesse. Il destino di questi soldati apparve subito assai peggiore di quello delle truppe che si erano in precedenza arrese agli anglo-americani nell’Africa orientale e nell’Africa settentrionale. I tedeschi, infatti, le trattarono con alterigia e disprezzo, ma soprattutto con il rigore che essi riservavano a coloro che avevano disertato. Basta pensare a ciò che accadde alla Divisione “Acqui” a Cefalonia e Corfù. Durante il viaggio, che a volte durava anche quindici giorni, la loro condizione divenne insostenibile. Se qualcuno, nei rari momenti in cui si aprivano i portelli, si azzardava minimamente ad allontanarsi dai vagoni, i tedeschi non avevano alcuna difficoltà a sparare. Ci fu chi impazzì, altri subirono indelebili danni fisici: tutti conserveranno nel tempo il ricordo di quel viaggio come il periodo forse più tragico della prigionia.

Un mondo, quello dell’internamento sul quale è bene fare alcune premesse. I tedeschi non considerarono i militari italiani catturati dopo l’8 settembre 1943 quali prigionieri di guerra, ma, con disposizione unilaterale, voluta da Hitler e accettata da Mussolini, a capo del governo della Repubblica Sociale Italiana appena costituita, li classificarono “internati militari”, categoria ignorata dalla Convenzione di Ginevra. Vennero così privati quasi del tutto dell’aiuto della Croce Rossa Internazionale. Gli Imi furono condotti in diverse zone del Reich: in Germania, Austria, Polonia e Cecoslovacchia. I lager erano contrassegnati da un numero romano che indicava la circoscrizione militare e da una lettera dell’alfabeto che ne stabiliva il numero progressivo all’interno di ciascun distretto. I militari di truppa e i sottufficiali vennero rinchiusi negli Stammlager (detti Stalag), per essere adibiti al lavoro coatto nelle miniere, nelle fabbriche e nelle campagne sopperendo all’esigenza di mano d’opera dell’economia tedesca. Chi si rifiutava di lavorare era destinato ai campi di punizione (Straflager), spesso dipendenti dai campi di sterminio dove le possibilità di sopravvivenza erano minime. I circa 30.000 ufficiali dell’esercito regio vennero collocati negli Offizierlager (detti Oflag) o in blocchi separati degli Stalag, dove non erano obbligati a lavorare, ma furono sottoposti a continue pressioni per convincerli ad aderire alla Repubblica Sociale Italiana. La maggior parte di loro, nonostante le crescenti e drammatiche difficoltà in cui si trovarono, non si piegò.

Arrivati nei lager, ciò che attendeva gli Imi erano il bagno, la disinfestazione, le vaccinazioni e la schedatura. Veniva quindi assegnato a ciascuno un numero al quale dovevano imparare a rispondere in tedesco negli interminabili appelli quotidiani. La loro dimora, di norma, erano delle baracche in legno e mattoni, costruite dai prigionieri rastrellati in Europa dopo l’invasione della Polonia nel 1939. Tra le testimonianze delle loro condizioni di vita c’è una serie di fotografie (circa 400) scattate dall’ufficiale Vittorio Vialli, internato nei campi di Luckenwalde, Benjaminowo, Sandbostel e Fallingbostel, il quale, con l’aiuto dei compagni, riuscì a nascondere una piccola Leica sequestrata, poi sostituita alla Zeiss Super Ikonta. Foto che costituiscono una straordinaria documentazione della tragica quotidianità dei lager nazisti, ma anche di alcune esperienze di elevato valore etico: le foto scattate a “Radio Caterina” (ricevitore clandestino) o al “laghetto” di Sandbostel, dove si svolse una simbolica protesta degli internati. Nell’aprile del 1945 Vialli riuscì infine a documentare l’arrivo degli inglesi, restituendo l’emozione di quei momenti.

Una memoria che viene custodita da uomini come Basilio Pompei, dalle famiglie degli ex internati militari che non ci sono più, ma anche di associazioni come l’Anrp che a Roma cura e gestisce il museo “Vite di IMI”. Per fare memoria e non dimenticare.