Attualità

La sentenza. Il senza dimora e l'avvocato, una lezione d'umanità

Angelo Picariello sabato 2 gennaio 2021

Una persona senza dimora, immagine d'archivio

Si chiama Alfonso Russo, è un senza dimora, uno dei tanti 'invisibili' che vivono nella città di Roma alla ricerca di un riparo per passare la notte. Alfonso, che il suo 'posto' l’aveva trovato sotto i portici del reparto di Otorinolaringoiatria del Policlinico Umberto I balzò tragicamente agli onori della cronaca nell’aprile del 2019 quando, colpito ripetutamente alla testa con un estintore da una guardia giurata, fu ricoverato con gravi fratture alla testa. Non era la prima volta, qualche mese prima lo stesso vigilante l’aveva colpito con un manganello, ma in questo episodio successivo rischiò di perdere la vita, e di morire come aveva vissuto, da invisibile. Ma il caso ebbe un gran clamore a seguito dell’arresto della guardia giurata, accusata di tentato omicidio.

Poi, come spesso accade, ci si dimentica di nuovo. Alfonso, una storia complicata alle spalle, refrattario anche alle proposte di accoglienza e recupero che nel tempo gli si sono presentate, è tornato nell’oblìo. Ma nella sua vicenda giudiziaria non è rimasto solo. Il processo di primo grado, con meno clamore, si è di recente concluso con la condanna a 9 anni, oltre all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e all’interdizione legale, per la guardia giurata. Il collegio della decima sezione penale del Tribunale di Roma, presieduto dalla dottoressa Antonella Capri, accogliendo integralmente l’ipotesi accusatoria della Procura, ha riconosciuto il tentato omicidio aggravato. La sentenza (le cui motivazioni non sono state ancora depositate) sancisce l’importante principio dell’intangibilità della vita umana, al di là di ogni condizione sociale e di vita.

Un esito processuale che porta alla luce anche l’importanza del principio che ogni essere umano, in quanto tale, meriti di essere tutelato in giudizio, anche in caso di assoluta nullatenenza, persino nell’inerzia del diretto interessato. Può così capitare che un professionista entri in contatto con una storia di totale abbandono e prenda a cuore la vicenda. L’avvocato Maria Teresa Perrella, che ha difeso Alfonso, esprime ora soddisfazione perché la tragica verità della volontà omicidiaria del vigilante è potuta emergere «nonostante il muro di reticenza e ostilità manifestata nel processo dal contesto lavorativo di appartenenza dell’imputato».

Il condannato, in solido con l’Istituto di vigilanza presso cui prestava servizio, dovrà anche risarcire i danni subiti dal clochard, altro risultato importante, visto che, come emerso dal processo, l’atto criminoso è maturato insieme alla convinzione, persino esibita, che nessuno mai sarebbe andato a sostenere i diritti di una persona che viveva in quelle condizioni.

In attesa della sentenza definitiva, ora l’auspicio, per il legale che l’ha assistito, è che, tenuti accesi i riflettori su di lui, Alfonso, tornato nel frattempo a vivere da 'invisibile', possa pian piano ritrovare, grazie alla solidarietà, nel corso dell’anno che viene, un tetto sicuro e un’esistenza più dignitosa.