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La denuncia dell'Onu. La Guardia costiera libica spara sui migranti in fuga, tre morti

martedì 28 luglio 2020

Un migrante prega in un centro di detenzione per migranti a Tripoli, in Libia

Tre migranti uccisi, e almeno altri due feriti, da colpi d'arma da fuoco sparati dalla Guardia costiera libica: è il bilancio del grave incidente avvenuto ieri notte a Khums, est di Tripoli, durante le operazioni di sbarco di migranti intercettati in mare e riportati a terra. L'Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr) ha chiesto un'indagine urgente, condannando "la tragica perdita di vite umane".

"Questo incidente dimostra chiaramente che la Libia non è un porto sicuro per lo sbarco", ha dichiarato l'inviato speciale dell'Unhcr nel Mediterraneo Centrale, Vincent Cochetel, sottolineando la necessità di una "maggiore solidarietà tra gli Stati costieri del Mediterraneo".

Un episodio di violenza che, secondo Cochetel, ha evidenziato anche l'urgenza di"aumentare la capacità di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo, comprese le navi delle Ong, al fine di aumentare la probabilità di operazioni di salvataggio che portino a sbarchi in porti sicuri fuori dalla Libia".

A dare la notizia è stata l'Organizzazione internazionale perle migrazioni (Oim) che in una nota, citando la testimonianza del suo personale presente sul posto, ha raccontato che "le autorità locali hanno iniziato a sparare nel momento in cui alcuni migranti, scesi da poco a terra, hanno cercato di darsi alla fuga".

Identica la ricostruzione del Comitato internazionale di soccorso (Irc), partner di Unhcr, secondo cui la sparatoria si è verificata durante lo sbarco di più di 70 persone; alcune scese da poco a terra hanno cercato di dileguarsi per evitare di essere portati nei campi libici di detenzione per profughi. Due dei migranti sudanesi, raggiunti dai colpi d'arma da fuoco, sono morti sul momento mentre un terzo è deceduto durante il trasporto in ospedale e altri due - cinque secondo l'Oim - sono rimasti feriti.

"Le sofferenze patite dai migranti in Libia sono intollerabili", ha affermato Federico Soda, capo missione Oim in Libia.

"L'utilizzo di una violenza eccessiva ha causato ancora una volta delle morti senza senso, in un contesto caratterizzato da una mancanza di iniziative pratiche volte a cambiare un sistema che spesso non è in grado di assicurare alcun tipo di protezione".

Il tragico incidente in Libia si è verificato all'indomani di un flash mob a Roma contro il rifinanziamento della missione libica da parte dell'Italia. "Rinnoviamo l'appello a sospendere la collaborazione con la Libia che ci rende complici di gravi crimini nei confronti di migliaia di persone", ha detto Riccardo Noury di Amnesty International. La deputata dem Laura Boldrini ha chiesto che il governa riferisca su quanto avvenuto: "L'Italia non può più tollerare queste modalità criminali. Non deve più finanziare la Guardia Costiera libica".

Negli ultimi mesi, in più occasioni, diverse Ong hanno denunciato gli orrori perpetrati ai loro danni da parte di guardia costiera, esponenti istituzionali, miliziani e trafficanti di uomini. Lo scorso marzo Medici per i diritti umani (Medu) - partner dell'Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr) - ha pubblicato un rapporto sulle gravi violazioni dei diritti umani dei migranti e dei rifugiati in Libia, tra il 2014 e il 2020. Il documento - intitolato "Libia, la fabbrica della tortura" - è basato su oltre 3 mila testimonianze di sopravvissuti ai lager libici arrivati al Cara di Mineo e prove raccolte in loco. Da quel rapporto emerge che in Libia la tortura è istituzionalizzata, finalizzata a ottenere denaro e a sottomettere i migranti, oltre al fatto che anche le forme della più impensabile depravazione sono finalizzate al massimo profitto, politico ed economico.

Una squadra di 15 esperti ha riscontrato che l'85% dei migranti e rifugiati giunti dalla Libia in Italia ha subito torture e trattamenti inumani e degradanti. Il 79% di loro è stato detenuto o sequestrato in luoghi sovraffollati ed in pessime condizioni igienico-sanitarie, mentre il 75% ha subito costanti deprivazioni di cibo, acqua e cure mediche, e il 65% gravi e ripetute percosse. Stupri e abusi sessuali, ustioni provocate con gli strumenti più disparati, percosse alle piante dei piedi, scariche elettriche e torture da sospensione e posizioni stressanti (ammanettati, in piedi per un tempo prolungato o sospesi a testa in giù) sono all'ordine del giorno. Medu ha confermato che in Libia si trovano 11 centri di detenzione formalmente controllati dalle autorità, mentre nel corso degli ultimi anni sono stati censiti 63 centri di detenzione su tutto il territorio libico, tra cui la famigerata 'Ossama Prison', dal nome del capo torturatore, membro della milizia al-Nasr comandata dai cugini Kachlav e a sua volta cugino del comandante Bija.

Inoltre, il rapporto di Medu ha evidenziato che "la tendenza addirittura si è aggravata a partire dal 2017, anno di sigla del Memorandum Italia-Libia sui migranti", formalizzato il 2 febbraio. In Italia, nel febbraio 2019, il quotidiano Avvenire ha pubblicato per la prima volta le foto di Bija - accusato di essere trafficante di uomini, armi e petrolio - in visita a Mineo e poi accolto a Roma, in sedi del governo. Il comandante Bija, rais del porto di Zawiyah, è direttamente coinvolto con la milizia al Nasr nella gestione del più grande centro di prigionia della Libia.

A documentare da tempo tutti gli orrori patiti dai migranti, anche venduti come schiavi, sono state le Ong Human Rights Watch (Hrw) e Amnesty International in diversi rapporti, comunicati e appelli alle autorità. Lo scorso febbraio, Hrw aveva denunciato "la condizione degradante e rischiosa" delle decine di migliaia di migranti catturati in mare dalla guardia costiera libica, trattenuti nei cosiddetti "centri di accoglienza, che però altro non sono che delle galere sovraffollate e luoghi di abusi di ogni sorta".

In un appello rivolto al governo italiano, Judith Sunderland, direttrice associata della divisione Europa e Asia Centrale di Human Rights Watch, ha insistito sul fatto che "la retorica umanitaria non giustifica il continuo sostegno alla guardia costiera libica, dal momento che l'Italia sa che le persone intercettate in mare torneranno ad essere detenute arbitrariamente e a subire abusi".

Lo scorso 26 giugno, in occasione della Giornata internazionale di sostegno per le vittime di tortura, Amnesty International ha ricordato una sentenza del tribunale di Messina - emessa lo scorso 28 maggio - che chiama in causa la collaborazione italiana in torture commesse in Libia, nel campo di detenzione per migranti di Zawiya, ai danni di tre persone successivamente arrivate sul territorio italiano: scosse elettriche, violenze sessuali, mancanza di assistenza medica, di acqua e di cibo.

"Dopo innumerevoli testimonianze delle persone sopravvissute alle sevizie, i rapporti delle organizzazioni per i diritti umani e le inchieste giornalistiche, ora anche una sentenza di un tribunale italiano ha confermato che i centri di detenzione libici per migranti, finanziati da Italia e Unione europea, sono luoghi di tortura", ha dichiarato Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty International Italia.

In un rapporto dello scorso febbraio, anche l'Alto commissario Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha denunciato le torture cui sono regolarmente sottoposti i migranti, senza che ci sia traccia di procedimenti giudiziari nei confronti di membri delle milizie o dei gruppi armati per i crimini commessi a partire dal 2011.