Attualità

L'intervista. Prodi: «L'Europa muore d'inedia»

Arturo Celletti e Eugenio Fatigante giovedì 20 agosto 2015
Sfidiamo Romano Prodi con una domanda netta. Quattro sole parole. Come trova l’Europa? La risposta è cruda, come è cruda e amara l’analisi che ne segue: «La trovo in uno stato terribile». Una pausa leggera. Come se il 76enne ex presidente della Commissione Ue (reduce anche ieri da una 'passeggiata' di 58 km. in bicicletta) volesse darci il tempo di riflettere su quell’aggettivo: terribile. «Nessuno dei grandi problemi è stato affrontato con spirito europeo. Né la Grecia, né l’immigrazione. Sono stati tutti lasciati esplodere». Più volte Prodi aveva denunciato una mancanza di visione dei leader europei; e anche oggi, nel giorno in cui Berlino dice sì al piano di aiuti ad Atene, resta con i piedi per terra. «Il problema non è stato affrontato in maniera definitiva: abbiamo evitato il peggio e abbiamo fatto il male. All’ultimo momento si è scongiurata un’uscita drammatica, ma con rimedi del tutto insufficienti per un rientro della Grecia nella vita politico-economica della Ue che sia stabile e duraturo». Sfidiamo ancora Prodi: il nodo Grexit si ripresenterà? Il professore annuisce. «Il debito non potrà mai essere pagato; sì, il problema si ripresenterà in futuro perché una cosa sono le aspirine, un’altra sono gli antibiotici ». Ancora una domanda 'facile': perché non sono stati dati gli antibiotici? «Perché anche sulla Grecia non c’è stato un dialogo collettivo; c’è stato, invece, uno sterile scontro di dottrine. E quando si scontrano le dottrine non c’è mai una soluzione definitiva». All’improvviso la Grecia resta sullo sfondo e Prodi torna a denunciare ritardi ed egoismi della Ue, mettendo sul banco degli imputati la Germania del Cancelliere Merkel e del ministro delle Finanze, Schaeuble. «Sta emergendo una dottrina nuova...». Ancora una pausa, quasi impercettibile: «... sì, sta venendo avanti una certa tentazione di togliere potere alla Commissione per ridarla agli Stati membri». Perché? Qual è l’obiettivo? Mi fermo alla denuncia, non voglio spingermi oltre. Continuo però a chiedermi se nel profondo dell’opinione pubblica tedesca non stia emergendo l’ipotesi che la Germania ce la possa fare da sola. Sola, con gli Stati che le stanno attorno. Sola, con una costellazione di Paesi che potremmo chiamare satelliti. Continuo a chiedermi se la Germania non abbia un’idea nuova di Europa. Se magari si pensi che esiste la Germania e che poi tutti gli altri Paesi sono quasi un peso. Sì, in questi ultimi mesi una domanda, sempre la stessa, si riaffaccia nelle mie riflessioni: la Germania punta a sostituirsi all’Europa?». Lei che dice? Non lo so, mi pongo però il problema. E rifletto sul protagonismo di Berlino negli ultimi tempi. Non voglio agitare fantasmi e capisco che dietro lo strapotere tedesco, oltre alla virtù del popolo tedesco stesso, c’è anche la profonda crisi degli altri. Ma l’analisi va fatta: le decisioni che contano sono sempre più estranee all’Europa e sempre più concentrate sulla Germania. Come si dovrebbe rispondere all’idea di Schaeuble di togliere forza alla Commissione? Magari con un vertice straordinario della Unione? Di vertici dell’Unione se ne fanno quasi uno ogni mese: per anni c’è sempre stato un vertice. Ma sempre per discutere sulla gestione del presente e mai per la definizione del futuro. Ora serve una soluzione nuova. Non basta più un vertice, serve di più. Serve un summit 'largo' con i Paesi della Ue, le istituzioni europee e con in più i grandi partiti politici. Bisogna ricominciare a parlare di politica perché così non si può più andare avanti. Così l’Europa muore. Muore, ma non con fragore. Muore di inedia. Muore perché gli altri nel mondo fanno progressi incredibili e noi siamo fermi. Muore perché le altre economie corrono e noi non siamo capaci nemmeno a decidere sulle cose che riguardano casa nostra. Qual è la prima cosa che le viene in mente? L’Ucraina. Che c’entravano gli americani con l’Ucraina? Qui è in gioco il rapporto Russia-Europa e invece ho visto un ruolo dominante degli Stati Uniti. Non sono certo anti-americano, ma un tempo sulle cose europee erano gli europei a decidere. Oggi no. Oggi nelle grandi cose del mondo non ci siamo più. Google, Apple, Alibaba, tutta roba americana o cinese: l’Europa dov’è? Non c’è una rete mondiale che ci vede protagonisti. Avevamo già dodici anni fa l’occasione di realizzare il collegamento satellitare mondiale. Poi i soliti veti, i soliti no: Gran Bretagna, Germania... Se vogliamo sparire dalla faccia della Terra, stiamo facendo benissimo. Non crede che i leader di oggi pensino più a loro stessi che all’Europa? È così, il problema è che sono tutti leader 'barometrici'. Leader con visione corta, che si fanno guidare dai sondaggi, incapaci di progettare, di ragionare sul futuro. Leader ossessionati dai voti politici che si accavallano. Sono tutti così, non ci sono eccezioni. Già, in questo momento non ci sono eccezioni. Qualche tempo fa osservatori cinesi mi interrogavano: 'Com’è possibile che problemi come scuola e pensioni qui da voi vengano affrontati con l’orizzonte di mesi e non di decenni?'. Notavano le nostre contraddizioni, capivano che anche in Italia - come nel resto d’Europa - si rincorre quello che si aspetta l’elettorato. Guardi l’immigrazione. Un problema drammatico e serio, che non viene mai affrontato tenendo conto degli assestamenti di lungo periodo. Eppure la Germania sembra cominciare a capire... Sì, la Germania negli ultimi giorni sembra diventata più cosciente. Credo che una svolta stia maturando, guardando quello che sta succedendo in Grecia: Kos e la Turchia si guardano, sono lì, separate solo da un pezzetto di mare. È vero, la Libia è il fronte più pesante, più tragico; ma guai a sottovalutare quello che sta accadendo in Grecia. È di lunedì il documento dei cinque grandi Paesi europei che con gli Stati Uniti spingono per un governo di pacificazione in Libia... Sono da sempre convintissimo che per trovare una via d’uscita bisogna mettere tutti attorno a un tavolo. Tutte le tribù, Tripoli, Misurata... Tutti, ripeto - ancora una volta - tutti. O è così o non si risolve nulla. Quel documento è un’espressione di buona volontà, sei grandi Paesi che invitano alla pacificazione è un aiuto importante all’azione che sta facendo l’Onu, ma... Ma cosa, professor Prodi? Non è possibile giocare su due tavoli. Dare vita a un nuovo pressing per un governo di pacificazione e ragionare sulla possibilità di armare il governo di Tobruk o di intervenire militarmente in Libia. Su una partita così delicata non si possono dare segnali contraddittori. Lei su quale opzione scommetterebbe? Io sono obbligato a sperare che davanti a tanto dolore, disperazione, tragedie così terribili, ci si metta tutti attorno a un tavolo. Poi ci saranno i soliti mille problemi; ma l’altra opzione è sciagurata. La via dell’invasione armata non ha nessuna prospettiva, né politica né militare. Che facciamo, mandiamo 200mila soldati? Vorrebbe dire una tragedia senza fine perché mandare soldati in un Paese con le divisioni interne che ha la Libia vuol dire rendere eterna la guerra. Io non voglio un altro Iraq o un’altra Afghanistan: laggiù abbiamo pagato duramente scelte miopi. Il problema lo devono risolvere i libici e noi dobbiamo obbligarli a mettersi attorno a un tavolo. Poi, per il mantenimento della pace, possiamo mandare rinforzi militari. Ma solo per garantire il rispetto dei patti sottoscritti. Come in Libano, come in Albania. E l’Onu che fa? L’Onu fa quello che gli lasciano fare. Io conosco quella realtà: l’Onu ha le mani legate, ha risorse limitate, per prendere qualsiasi decisione bisogna andare davanti al Consiglio di sicurezza. Non me la sento davvero di condannare le Nazioni Unite: fanno quello che possono e cercano di farlo bene. Però a me non possono mica chiedere di fare danza classica... Provi a riflettere sul dibattito italiano: i no agli immigrati minano gli interessi nazionali? Come sono possibili quei no? Come è possibile che uno dica 'nel mio territorio no'. Penso all’Italia e penso all’Europa. Vale per tutti, e tutti devono pesare scelte e parole. Ci sta provando a far capire qualcosa? Sta montando una mistura di populismi. Il populismo di destra su ordine e immigrazione si lega a un altro populismo, questa volta di sinistra, su temi anti-casta o come il reddito minimo. La maestra di questa dottrina è la signora Le Pen, ma in Italia c’è chi segue lettera per lettera quella lezione. Il populismo segue le due grandi paure: quella per la sicurezza e quella per l’economia. E se qualcuno riesce a mettere insieme i due temi, vince. Vince facendo leva sulla disperazione di tanta gente, ma vince. Come si fronteggia il rischio? Con la capacità di rassicurare. La risposta al populismo è rassicurare, perché la gente ha paura davvero. Noi oggi facciamo 'accoglienza' in Italia? Noi facciamo primo soccorso, non accoglienza. Con i numeri di oggi non è poco. Ma accogliere vuol dire trattare la gente in modo civile, anche se nel lungo periodo diventa uno sforzo molto impegnativo. E quindi? È uno sforzo grosso. Affrontabile, seppure con difficoltà, da un Paese delle nostre dimensioni, ma grosso. Ma nello stesso tempo debbo dire all’Europa: non basta uno sforzo finanziario,  serve una vera disponibilità ad accogliere, l’Italia da sola non ce la fa. Guardiamo gli ultimi dati economici non positivi. Dobbiamo rassegnarci a una Ue che non cresce e a un’Italia 'maglia nera' in questa Europa? Credo di sì. L’Europa arranca e senza vere novità dobbiamo rassegnarci a non crescere. Finché andremo avanti con queste politiche miopi non ci potrà essere ripresa. La Germania non può continuare ad accumulare un surplus del 6-7% nella bilancia commerciale senza cambiare politica. Anche nel proprio interesse. Ma ora qualcosa potrebbe cambiare. Perché? Perché qualche problema comincia ad averlo anche la Germania. Berlino pagherà il rallentamento delle esportazioni. Russia e Cina per la Germania sono due 'mercatoni'. Un esempio? Le nostre esportazioni in Cina sono il 2,5% dell’export totale, quelle della Germania arrivano a sfiorare il 7. Anche Berlino dovrà fare attenzione: la crisi morde tutti e anche i tedeschi dovranno immaginare strade diverse. Strade diverse significa maggiore flessibilità? Sarebbe giusto sforare nella Legge di stabilità il tetto del 3%? Abbiamo limiti di manovra estremamente ristretti. E poi appena uno pensa di avvicinarsi in modo non armonicamente concordato al tetto del 3 per cento, riscatta lo spread. E allora quello che entra dalla porta riuscirebbe dalla finestra. È stato annunciato dal premier un piano di riduzione fiscale: la convince o vede rischi? Sto facendo in questi giorni i conti sulla compatibilità delle diverse promesse. Sono promesse in cui manca ancora l’aspetto quantitativo e delle compatibilità. La sfida della prossima manovra sarà appunto rendere compatibili su più anni questi impegni finora non precisati. E guardate che non è una risposta evasiva, è una risposta seria. Si riparla di abolizione della Tasi prima casa. Mi limito a ricordare che una forma di tassazione immobiliare sostiene i bilanci delle comunità locali di tutte le democrazie. E che anche mantenendo l’imposta, si può arrivare a misure eque. Nel 2008, nelle proposte del mio governo eravamo arrivati ad abolirla nel 60% dei casi, quindi si può fare anche solo per la maggioranza meno agiata della popolazione. Mentre l’Europa fatica c’è chi, come la Gran Bretagna, ha deciso di affidare a un referendum la propria permanenza futura nell’Unione. Un grave errore. Tutta la forza di equilibrio che la Gran Bretagna esercitava in Europa si è dissolta. Oggi siamo davanti a un dilemma: in Gran Bretagna sta crescendo il partito europeo, di chi dice che uscire sarebbe un errore, ma il primo ministro Cameron si è spinto così avanti che è costretto ora a chiedere l’impossibile ai suoi soci europei. L’alternativa sarà fra una Gran Bretagna che esce dall’Europa - cosa che ritengo assai improbabile - e una Gran Bretagna che partecipa sempre meno a una politica europea comune e che chiede sempre più eccezioni per se stessa. Che diventa membro di una comunità commerciale e non di una comunità politica. Sarà un voto molto dettato dagli interessi economici. Torniamo un attimo alla Grecia: per l’Europa è un po’ come il Sud per l’Italia? No, la Grecia è una nazione, il nostro Sud è il terzo di un Paese. Ci sono elementi comuni in tanti parametri (disoccupazione, crollo della natalità, arretramento nel periodo della crisi), ma le soluzioni non possono essere paragonabili. Come lo salviamo il Meridione? Il discorso è complesso. Non c’è un Mezzogiorno omogeneo: l’Abruzzo, il Molise e la Puglia si stanno muovendo meglio, ma la Campania, la Calabria, la Sicilia sono immobili. E i problemi di vent’anni fa sono quelli di oggi. E perché? Perché c’è una grande rassegnazione, perché si guarda al futuro con scetticismo. In una crisi economica così dura le parti più deboli sono quelle che più soffrono e che più facilmente perdono la speranza. Inoltre non possiamo mancare di elencare le piaghe del passato che durano nel presente, come criminalità ed evasione fiscale. Che messaggio darebbe al Sud? I progetti su cui ho lavorato e scommesso quand’ero al governo sono stati tutti demoliti dalla società locale. Penso al porto di Gioia Tauro, a quello di Taranto. Erano partiti benissimo come una scommessa per il futuro, sono stati travolti da un’inefficienza assoluta. Il problema del Sud è il Sud. È una burocrazia sfaldata. Poi ogni tanto nascono delle autoillusioni, come la grande speranza del turismo. Ma il turismo esige un’apertura al mondo, esige infrastrutture, ospedali efficienti, penso a chi attira gli anziani d’inverno come sta facendo il Sud della Spagna. Invece il più bell’insieme del mondo, che è la Sicilia, ha solo il 9% dei turisti delle Baleari: non so se ridere o piangere. Questo avviene perché la società locale non funziona. È un male incurabile? Le Regioni si fanno una concorrenza inutile. Di recente in una tavola rotonda ho provato a chiedere una strategia comune a cinque governatori meridionali. Mi guardavano come per dirmi 'ma si rende conto?'. Sì, è l’ultima analisi amara. Ma Italia e Europa sono ammalate dello stesso male: non hanno al loro interno una strategia comune e non riescono più a camminare verso il futuro.