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Polemiche. Abruzzo, firmata l'intesa per salvare il re del parco nazionale

Alessia Guerrieri mercoledì 2 aprile 2014
Il tepore primaverile di questi giorni sarà la sua sveglia. Ma la fine del letargo invernale segna per l’orso l’inizio di un percorso ad ostacoli per la sopravvivenza. Non tanto per la ricerca di cibo, visto che nel parco nazionale d’Abruzzo-Lazio-Molise ce ne è abbastanza per i poco più di cinquanta esemplari rimasti. Ma per la convivenza con l’uomo, non sempre facile. E così che alla naturale pellegrinazione su ampi spazi dell’orso marsicano, si risponde troppo spesso con esche avvelenate, lacci e bracconaggio. Come pure storcendo il naso davanti a strade di montagna chiuse per lasciare più liberi i grandi mammiferi nelle stagioni di iperfagia. Il rischio estinzione non sembra ancora scongiurato, infatti, visto che si continua a perdere 2-3 esemplari l’anno – 97 quelli morti dal 1971 – nella metà dei casi per mano dell’uomo. Una percentuale che cresce ancora se si considera che un altro 40% delle volte le cause della loro morte sono ignote. Ecco che così il protocollo d’intesa per salvare l’orso bruno, firmato alcuni giorni fa tra ministero dell’Ambiente, tre Regioni del centro Italia (Lazio, Abruzzo e Molise) e l’ente Parco, è più di una semplice dichiarazione d’intenti. È invece «un impegno biennale per tutti i soggetti coinvolti con chiari compiti per ognuno», dice il neo presidente del Parco nazionale d’Abruzzo, Antonio Carrara, ma soprattutto «un importante passo verso lo sviluppo di quella sensibilità diffusa necessaria per salvare questo animale». È vero, di nuovi fondi non ce ne sono. Ma non è tutta una questione di più risorse, anche se servirebbero come il pane. Più che altro c’è la necessità di «creare sempre maggiori condizioni favorevoli alla tranquillità dell’orso», aggiunge Carrara, anche fuori dall’area protetta (circa 50mila metri quadri). E guai chi pensa che l’orso si avvicini ai luoghi abitati anche fuori dal parco per fame. Lo fa perché «è per natura nomade». In questi anni la zona di tutela del Parco nazionale d’Abruzzo si è allargata, in accordo con i Comuni, aggiungendo un’area di prossimità esterna sottratta allo sfruttamento dell’uomo (ad oggi 80mila metri quadri); si sono ridotti i tempi nei risarcimenti per i danni causati dall’orso a 60 giorni. In più si è incentivato il pattugliamento della Forestale e l’uso delle squadre cinofile antiveleno, anche se - un paradosso - il parco non ne ha di proprie, ma utilizza l’unica disponibile nella vicina riserva del Gran Sasso. Ma non è bastato, comunque, a fermare la strage. Anche nel 2013, difatti, gli orsi morti in Abruzzo sono stati quattro. E ad essi si aggiunge l’esemplare trovato senza vita a inizio 2014 in circostanze misteriose.          In questi anni «abbiamo risarcito su un’area di 130mila ettari, insomma anche dove non era di nostra competenza», ammette il commissario Giuseppe Rossi, per otto anni alla guida del Parco nazionale, perché i risarcimenti sono «l’unico mezzo che funziona contro gli atti di inciviltà». Certo il problema risorse resta, perché «l’orso non si tutela a chiacchiere» aggiunge, ma si deve sommare ad una maggiore sensibilità sia dei Comuni che delle Regioni interessate. Ed è qui che torna più volte anche il nuovo presidente del Parco. «Non dico che i soldi non servono – dice difatti Carrara – ma iniziamo con l’applicare il protocollo», che significa istituire maggiori aree contigue, nuovi vincoli per le Regioni (ad esempio nell’approvazione dei piani parco) e nel trasmettere «la cultura interna al parco anche fuori dai suoi steccati». Gli investimenti? Fondamentali per fare più controlli e prevenzione, perciò si potrebbe iniziare col prevedere fondi specifici nella programmazione regionale dei fondi europei 2014-2020. Non per l’ente Parco, precisa Carrara, ma «per i territori del parco», perché l’orso si salva solo se enti e istituzioni collaborano.