Attualità

Dopo il bluff della clonazione umana. Editing genetico, una «svolta» a caro prezzo

Assuntina Morresi sabato 19 agosto 2017

Dieci anni fa successe qualcosa di simile. Stessi protagonisti e dinamica: battage mediatico prima della pubblicazione dell’articolo scientifico, giornaloni che creano un clima di attesa, la ricerca è di frontiera e controversa dal punto di vista etico, aprirà di sicuro nuovi orizzonti, certamente si sconfiggeranno malattie terribili adesso incurabili. E quando la sospirata pubblicazione si materializza la svolta viene apparentemente confermata.

Dieci anni fa il quotidiano britannico The Indipendent preannunciò un probabile «gigantesco passo in avanti» verso la clonazione umana. Dopo mesi di indiscrezioni era stato reso noto che il biologo di origine russa Shoukhrat Mitalipov, dell’Oregon National Primate Research Centre di Hillsboro, era riuscito a clonare macachi. Una volta pubblicato il lavoro sulla prestigiosa rivista Nature, si vide che a partire da 304 ovociti erano state prodotte due linee staminali embrionali clonate, di cui una con anomalie cromosomiche. Nessuna gravidanza portata a termine e quindicimila ovociti animali utilizzati per l’intero protocollo. Il 'successo' fu oscurato dopo pochi giorni dall’annuncio di Ian Wilmut, il 'padre' della pecora Dolly, che abbandonava le ricerche sulla clonazione (quindi anche quelle di Mitalipov) per seguire la più promettente strategia di riprogrammazione cellulare di Shinya Yamanaka, che per le sue staminali pluripotenti indotte avrebbe vinto di lì a poco un premio Nobel.

Non sappiamo se il finale sarà analogo, ma certo l’inizio è identico. Da tempo indiscrezioni sapientemente diffuse a mezzo stampa, creando suspense, ci hanno anticipato i contenuti di un articolo scientifico, ancora una volta su Nature, ancora una volta su una ricerca di frontiera ed eticamente problematica, ancora una volta con la promessa di eradicare spaventose malattie. L’autore è ancora Shoukhrat Mitalipov, che adesso lavora nel Center for Embryonic Cell and Gene Theraphy della Oregon Health & Science University.

Si tratta di una manipolazione genetica di cui si è discusso tantissimo: una tecnica di editing genetico dall’impronunciabile sigla Crispr-Cas9, con cui si può effettuare una sorta di 'taglia e cuci' del Dna in modo più semplice ed efficace che in precedenza, con cui si potrebbero correggere difetti genetici responsabili di molte patologie. La pubblicazione di cui parliamo riguarda l’applicazione di questa tecnica a embrioni umani. Finora a fronte di migliaia di articoli scientifici riguardanti la tecnica solo tre erano stati dedicati al gene editing di embrioni umani, tutti pubblicati da studiosi cinesi e con risultati deludenti. In questa ricerca, invece, il Crispr-Cas9 viene utilizzato diversamente, dando risultati significativamente migliori. Ma è veramente una svolta o è una replica del 'successo' dei macachi? Il gruppo di ricerca guidato da Mitalipov ha lavorato su una mutazione genetica responsabile di patologie cardiache, la più importante delle quali è la cardiomiopatia ipertrofica (causa principale di morti improvvise in giovani atleti).

Il gene è Mybpc3. Si tratta di una mutazione dominante: è sufficiente che un bambino la erediti da un solo genitore perché la patologia si manifesti. Quindi una coppia in cui uno dei due geni- tori ha una mutazione di questo tipo ha il 50% di probabilità di avere un figlio con il gene mutato, e quindi malato. I ricercatori hanno mostrato che se si applica la tecnica al momento della fecondazione, inserendo nell’ovocita le componenti del Crispr-Cas9 insieme allo sperma, si hanno risultati migliori rispetto a quanto si ottiene applicandola su embrioni umani già formati, 18 ore dopo la fecondazione.

Con il nuovo metodo presentato gli embrioni liberi dalla mutazione sono il 72% di quelli generati, anziché il 50% che avverrebbe naturalmente, con un genitore sano e uno malato. Sono inoltre ridotti di molto gli 'errori', cioè le modifiche involontarie, che comunque ancora restano, specie di un tipo (delezioni e inserzioni). Ma le obiezioni di merito, e di metodo, sono importanti, e tanto entusiasmo sembra avere più il sapore di lancio pubblicitario. La cosa non fa piacere, perché non si può che essere favorevoli alla cura degli embrioni, eliminandone – se possibile – anomalie genetiche responsabili di patologie gravi.

Ma l’articolo sembra proprio dimostrare il contrario di quanto annunciato, cioè la svolta del gene editing applicato agli embrioni. Nel merito: il gene editing applicato alla sequenza individuata dai ricercatori, per correggere l’anomalia studiata, oltre alla modifica voluta ne induce anche altre involontarie in regioni diverse del Dna, alterandone le funzioni in modo imprevedibile. Si hanno quindi embrioni 'corretti', cioè senza la mutazione patologica scelta, ma geneticamente modificati altrove, con conseguenze ignote sull’eventuale nascituro e sulle generazioni future.

Rispetto agli studi precedenti le mutazioni non volute sono ridotte di numero e tipologia, ma non eliminate. Anche fra gli stessi autori (ad esempio, Jin-Soo Kim) si suggerisce che forse tale miglioramento è dovuto proprio al Mybpc3, la cui sequenza è tale che si presta a essere 'editato' meglio di altri. Il metodo proposto da Mitalipov andrebbe quindi replicato per mutazioni diverse, per verificarne l’effettiva efficacia.

Dai risultati si vede poi che negli embrioni 'corretti', il gene 'editato' non riproduce la sequenza inserita dai ricercatori ma quella del gene sano presente nell’ovocita. In altre parole, il gene mutato del padre si 'corregge' seguendo la linea del Dna della madre, e non quella fornita in laboratorio. Questo significa che la tecnica non funzionerebbe se entrambi i geni, da parte del padre e della madre, fossero mutati. Se cioè la mutazione fosse omozigote. La questione è di importanza fondamenta-le, e dal merito si passa al metodo: l’unico caso in cui l’applicazione del gene editing avrebbe un senso, perché è l’unica possibilità di eliminare anomalie, è proprio per mutazioni di questo tipo, omozigote, dove la coppia non potrebbe mai generare embrioni sani. Rarissime, quindi di rilevanza bioetica, ma non clinica. Negli altri tipi di patologie ereditarie analoghe, collegate a un solo gene, al concepimento si forma sempre una certa quota di embrioni non malati, e le coppie portatrici di mutazioni patologiche che sono già disposte ad affrontare la fecondazione assistita per avere un figlio possono già oggi selezionare gli embrioni sani e scartare i malati, con la diagnosi preimpianto, senza indurre mutazioni aggiuntive. Chi riconosce che l’embrione è «uno di noi», e quindi non è disposto a scartarne, non inizia neppure un percorso di fecondazione in vitro, che di per sé porta sempre a una produzione di embrioni 'soprannumerari', nella migliore delle ipotesi da congelare in attesa di un impianto futuro. Il metodo di Mitalipov semplicemente aumenta il numero di embrioni senza la mutazione ereditaria – dal 50% al 72% , con la previsione dello studioso di arrivare fino al 90% –, comunque da selezionare, e in aggiunta con tutte le enormi incognite legate alle modifiche involontarie del genoma, non sempre individuabili e dagli esiti ignoti. Non solo: nello stesso articolo si spiega con chiarezza che l’esperimento proposto è «praticamente impossibile » da realizzarsi per una mutazione omozigote, cioè nell’unico caso in cui il gene editing avrebbe teoricamente senso.

Lesperimento proposto consiste infatti nel creare embrioni umani appositamente per la ricerca (operazione vietata anche dalla Convenzione di Oviedo): il gene editing è praticato contestualmente alla fecondazione, non dopo, e non possono quindi essere usati embrioni soprannumerari. Ma quanti embrioni bisognerebbe creare per affinare la nuova procedura, in questa e per le altre mutazioni di un singolo gene? E quante donne bisognerebbe pagare, per ottenere un numero di ovociti sufficiente a sperimentare? Considerando che solo per lo studio in questione sono stati forniti 167 ovociti per 131 embrioni – distrutti il terzo giorno – dovremmo pensare come ordine di grandezza ad almeno decine di migliaia di ovociti e di embrioni. E anche tralasciando tutti i problemi connessi – la formazione di un numero enorme di embrioni da distruggere, l’inevitabile pagamento delle 'donatrici' – ammettiamo che per alcune mutazioni gli embrioni siano apparentemente sani: poi, che si fa? L’unico modo per capire se effettivamente il metodo ha funzionato è far nascere un bambino (e seguirne la discendenza): i pochi giorni di vita dell’embrione in vitro non sono sufficienti a mostrare la piena riuscita della tecnica.

Lo dice un osservatore attento come Paul Knoepfler, esperto del settore della Uc Davis School of Medicine in Sacramento. Lo ha scritto a chiare lettere anche il nostro Comitato nazionale per la bioetica, in un recente parere proprio sul gene editing, approvato il 23 febbraio. Un parere complesso e articolato, nel quale l’intero Comitato ha espresso la propria contrarietà, al momento, all’uso del gene editing per embrioni nella fecondazione assistita, e una parte ha obiettato sulla reale utilità scientifica dell’applicazione di questa tecnica agli embrioni, proprio per il motivo appena illustrato: solo con la nascita di un bambino, o successivamente, è possibile stabilire l’efficacia e la sicurezza del gene editing. Ma siamo disposti a far nascere un bambino 'editato', usandolo come cavia, per verificare la riuscita della manipolazione genetica? La ricerca guidata da Mitalipov lascia inalterato il più grande dei quesiti.