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L'inchiesta. Torture, botte e Gomorra. Carabinieri choc a Piacenza

Matteo Marcelli giovedì 23 luglio 2020

Intoccabili perché protetti dalla divisa. Sbruffoni e violenti come i peggiori boss della mafia: «A me interessa l’erba, averla sempre », «se riesco vengo a prendere la coca», «abbiamo trovato un’altra persona che va dagli spacciatori e gli dice: “da oggi in poi, se vuoi vendere la roba vendi questa qua, altrimenti non lavori!” e gliela diamo noi». A parlare non sono camorristi, ma carabinieri intercettati dagli uomini della Procura di Piacenza.

Un’inchiesta choc, culminata, ieri, in 22 ordinanze di custodia cautelare, 10 delle quali destinate a uomini dell’Arma. In cinque sono stati accompagnati in carcere, mentre un altro è agli arresti domiciliari. Tre i militari per i quali è stato disposto l’obbligo di presentazione alla polizia, mentre il comandante della Stazione Levante – dove gli indagati prestavano servizio – dovrà rispettare l’obbligo di dimora nella provincia emiliana.

Spaccio di droga, estrosione, ricettazione, arresto illegale, lesioni personali e tortura: un campionario di reati degno delle più corrotte bande criminali. Gli inquirenti hanno posto sotto sequestro l’intera caserma, nella quale, come ha chiarito il procuratore capo di Piacenza, Grazia Pradella, «non c’è stato quasi nulla di lecito» e dove «solo un militare, allo stato attuale, non appare coinvolto». Inquientante lo scenario svelato dalle intercettazioni. Il reato di associazione a delinquere non è stato contestato ma è così, per loro stessa ammissione, che i militari guardavano al proprio sodalizio criminale: "Abbiamo fatto un’associazione a delinquere ragazzi. Una piramide. Noi siamo irraggiungibili". Gli spacciatori che non volevano collaborare e rifornire il gruppo venivano minacciati e malmenati. In una foto mostrata dai titolari dell’inchiesta si vede una persona ammanettata a terra e il pavimento sporco di sangue. Per chi indaga si tratterebbe di un soggetto pestato brutalmente per non aver voluto rivelare dove si trovava “la merce”, sulla quale i carabinieri avrebbero voluto mettere le mani per rafforzare il loro “giro”.

Una condotta mascherata da falsi rapporti inviati al pm di turno, utili a giustificare le misure prese illegalmente, della quale, però, veniva fatto un vanto: «Hai presente Gomorra? È stato uguale e io ci sguazzo in queste cose. Devi vedere gli schiaffoni che gli ha dato!», raccontava uno degli indagati elogiando la violenza del suo sodale. Altri scatti mostrano i militari sfoggiare pose da camorristi, con “ventagli” di denaro contante in bella vista, bottiglie di vino, vestiti firmati. "Indagini patrimoniali – ha confermato Pradella – hanno evidenziato un tenore di vita che mai avrebbe potuto appartenere all’Arma dei carabinieri ". Il tutto condito da festini a base di droga ai quali partecipavano prostitute e transessuali. L’appartenenza al Corpo permetteva agli indagati qualsiasi sopruso, persino intimidire un concessionario per avere un’auto di lusso a prezzo agevolato.

Il gruppo era talmente efficiente nella sua attività criminale da procurarsi stupefacenti senza problemi anche durante il lockdown. "L’aspetto che ci ha colpito di più dal punto di vista umano – ha sottolineato ancora il procuratore – è che queste attività di procacciamento della sostanza stupefacente nel periodo di chiusura ha comportato condotte gravissime nei confronti di piccoli spacciatori, ultimi tra gli ultimi".

Le attività d’indagine hanno preso il via in seguito alla segnalazione di un ufficiale dell’Arma, che ha prestato servizio per molti anni a Piacenza, il maggiore Rocco Papaleo, attualmente comandante della compagnia Carabinieri di Cremona. Convocato in procura per un’altra inchiesta, l’ufficiale ha raccontato di aver ricevuto una serie di messaggi da un cittadino di origine marocchine, che affermava di essere un informatore dei Carabinieri e di conoscere l’appuntato Giuseppe Montella, uno degli arrestati. Quest’ultimo, come scrive il gip, "era solito ricompensare le notizie ricevute attraverso la cessione di stupefacente, che era custodito in un contenitore all’interno della caserma e veniva chiamato "scatola della terapia" ". Quando le risposte dell’informatore non erano però esaustive, i tre carabinieri "avevano l’abitudine di esercitare pressioni su di loro e minacciarli, anche con la complicità del comandante delle stazione".