Attualità

Scuola. Presidi e pedagogisti: «Dad, anche un'occasione per innovare»

Paolo Ferrario mercoledì 13 gennaio 2021

Uno studente segue le lezioni a distanza nel cortile della scuola

«Adesso il rischio è di buttare il bambino con l’acqua sporca». Sintetizza così, il presidente dell’Indire, Giovanni Biondi, il dibattito sulla didattica a distanza, che vede, da un lato, gli studenti “occupare” simbolicamente i cortili e gli ingressi delle scuole, chiedendone la riapertura, sostenuti da comitati e associazioni di genitori e, dall’altro, altri alunni e famiglie che, invece, antepongono la sicurezza e il timore dei contagi alla ripresa delle lezioni in presenza. Così, mentre un’indagine di Ipsos per Sos Villaggi dei bambini dice che «9 studenti su 10 sarebbero entusiasti di ripartire», un sondaggio di Skuola.net tra gli alunni delle superiori, svela, invece, che per «4 su 5 è giusto prolungare le chiusure», anche se temono gli «effetti collaterali della Dad». E ancora. Mentre il comitato Priorità alla scuola chiede «la scuola in presenza», perché «la prolungata chiusura mina i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza», lanciando un appello in tal senso al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sottoscritto, tra gli altri, dall’economista Tito Boeri, dal pedagogista Daniele Novara, dallo scrittore Bruno Tognolini e dalla psicologa Silvia Vegetti Finzi, in Campania nasce l’associazione dei genitori “sì Dad”, per difendere i propri figli da possibili contagi in classe e sui mezzi pubblici.
In mezzo, come sempre, c’è la politica che, con il governo schierato per la riapertura e 17 Regioni su 20 che, invece, hanno deciso di tenere chiuso, non contribuisce a fare chiarezza e a rassicurare i cittadini.
«Chiederò ristori formativi», annuncia la ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina. «Ma la scuola non è un’attività economica», ricorda il presidente dell'Associazione nazionale presidi, Antonello Giannelli, sottolineando che «mentre è più facile provvedere ai ristori di natura economica, è molto più difficile prevedere dei “ristori” per gli studenti che stanno subendo dei ritardi nella loro preparazione e dei danni nella loro crescita intellettuale, psicologica e relazionale: questo è il vero problema». E la segretaria generale della Cisl Scuola, Maddalena Gissi, avverte: «Sarebbe bene non continuare in una discussione sulla scuola condotta per prese di posizione astratte, cioè disancorate da una valutazione del reale fabbisogno che solo ogni singolo istituto può direttamente e concretamente rilevare».
Insomma, il nodo si ingarbuglia sempre più e la mancanza di chiarezza alimenta il timore di Biondi che, alla fine, di questa esperienza rimanga poco o nulla. Nemmeno gli aspetti positivi, che pure ci sono.
«Le tecnologie applicate alla didattica permettono attività di collaborazione importanti tra gli alunni e con gli insegnanti», rilancia il presidente dell’Istituto che ha come obiettivo l’innovazione della scuola italiana. «Oggi in rete si trova di tutto e un uso intelligente di queste risorse potrebbe cambiare davvero la metodologia didattica», spiega Biondi. Invece, fin dal primo lockdown, «abbiamo sbagliato tutto», riproponendo, a distanza, la scuola in presenza. Un errore che rischiamo di pagare molto caro, perché, dopo quasi un anno di applicazione, «la Dad ora è vissuta come un male» da studenti e famiglie, che «non ne possono più».
Per il presidente dell’Indire è stato sbagliato l’approccio. Durante l’estate, «anziché acquistare i banchi singoli», si sarebbe dovuto «investire sulla formazione digitale degli insegnanti», perché «era chiaro che, al primo segnale di recrudescenza della pandemia, le scuole sarebbero state chiuse di nuovo».
Siccome, però, «la scuola è un ambiente sociale» si doveva studiare una strategia diversa, puntando sulla «didattica mista: un giorno a distanza, per fare lezione e il rientro in classe per le attività di collaborazione, di cui i ragazzi hanno bisogno» Così facendo si poteva rientrare a scuola «almeno tre giorni la settimana», prosegue Biondi. Che punta il dito contro la decisione di «accentrare tutto», di «decidere per tutti allo stesso modo», non considerando le peculiarità delle 8mila istituzioni scolastiche e degli oltre 40mila plessi, distribuiti su tutto il territorio. «Bisogna puntare sull’autonomia responsabile – rilancia Biondi – perché una piccola scuola di montagna, con dieci bambini di una pluriclasse, non è equiparabile a un grande istituto di città. E a fare la differenza è proprio l’autonomia, che dovrebbe essere il grimaldello per impiegare le risorse del Recovery fund e cambiare, finalmente, il nostro modello scolastico».
Prima, però, interviene Giuseppe Bertagna, pedagogista dell’Università di Bergamo, già consulente dell’ex-ministra dell’Istruzione, Letizia Moratti, «una classe politica degna di questo nome, dovrebbe cominciare a confessare i propri peccati». Che sono soprattutto tre.
«Il primo: si sapeva che il lockdown avrebbe comportato la necessità del digitale e della formazione a distanza online, in e-learning, ma non si è investito in piattaforme e nella digitalizzazione della scuola», ricorda l’esperto. «Il secondo errore, forse quello più grave – rilancia – è stato quello di immaginare che la scuola a distanza fosse strutturata sullo stesso modello di quella in presenza. E questo ha danneggiato sia la distanza che la presenza. Alimentando l’equivoco che se fossimo in presenza non ci servirebbe il digitale. Invece è proprio per rinnovare la presenza che serve una forte digitalizzazione della scuola italiana. In senso più produttivo. Se, invece, immagino che la distanza serva a fare le stesse cose della presenza, danneggio enormemente la potenzialità straordinaria del digitale».
Infine, il «terzo peccato: aver perso un altro anno, perché non si è compreso che non basta più l’insegnante che spiega le proprie discipline, ma serve l’esperto di e-learning d’istituto, per offrire agli studenti anche il meglio che c’è nella Rete. Deve passare l’idea del docente-tutor, che prenda un ragazzo in prima e lo conduca a utilizzare l’offerta disciplinare, l’offerta opzionale, alternativa in e-learning, a coordinarla sulla base dei propri percorsi di apprendimento. Che parli con altri insegnanti, con la famiglia e con lo studente, per decidere insieme il percorso da intraprendere».
Anche a causa dell’emergenza in corso, invece, corriamo seriamente il «rischio che la scuola rinunci alla parte educativa», per lasciare spazio a psichiatri e psicologi e, in definitiva, alla «medicalizzazione dell’educazione». Soprattutto in questa fase, allora, c’è la «necessità di un docente-educatore che sia nella scuola e garantisca, in questa frammentazione, una camera di compensazione per problemi di apprendimenti ma anche comportamentali».
«Riconoscere, confessare questi peccati – conclude Bertagna – sarebbe il miglior portato per la politica e la programmazione degli interventi da fare, sulla scuola, nei prossimi anni. Invece, il risultato di questi errori è che i ragazzi vogliono tornare in presenza perché a distanza non c’è uno spazio educativo. In un colpo solo abbiamo danneggiato il digitale, che sarebbe utile se fatto in modo diverso e fatto rimpiangere la scuola tradizionale, che invece deve essere profondamente innovata».