Attualità

Torino. Curare le ferite della violenza. A scuola di dolore e traumi

Chiara Genisio martedì 14 novembre 2017

«Trauma», un termine sempre più presente nel nostro vocabolario. Segno di una violenza diffusa, di un numero crescente di persone vittime di sofferenze. Sono gli uomini, le donne e i bambini vittime di attacchi terroristici, sono i rifugiati, i migranti, le donne sempre più giovani, quasi bambine, vittime della tratta. E ancora molte altre sofferenze. Tanti volti, ciascuno con la propria storia. Come ascoltare e prendersi cura delle vittime di violenza è al centro di un seminario in corso a Torino promosso dal Gruppo Abele con il Cps (Dipartimento di culture, politica e società) e il Cretan (Centro di ricerche in etnopsichiatria e antropologia delle migrazioni) entrambi dell’Università di Torino. Oltre trecento operatori sociali, giunti da tutti Italia, mettono in comune le loro esperienze accanto alle vittime e i possibili approcci clinici.

«Un operatore deve intercettare anche ciò che la vittima non riesce a dire, deve riuscire a scoprire dove e come sono maturate le violenze subite, lo sfondo dove fioriscono queste biografie della sofferenza», a spiegarlo è Roberto Beneduce, psichiatra e antropologo, che ha introdotto il seminario. In prima linea da molti anni nella cura della salute mentale dei migranti lo psichiatra ha ricordato che le vittime non sono semplici documenti, ciascuno deve essere ascoltato per le proprie complessità. Perché non esiste una definizione di trauma uguale per tutti. Come il caso di un uomo che ha curato, un rifugiato proveniente dall’Africa equatoriale, arrestato per questioni politiche.

Era rimasto in carcere solo pochi giorni, senza subire tortura. Ma al suo rilascio fu rasato a zero. Poco giorni dopo scoprì che spesso le lamette utilizzate erano infette, questo lo indusse in uno stato di completa frustrazione convinto di aver contratto l’Hiv. Al punto che neppure al suo arrivo in Italia ebbe la forza di chiedere un test di controllo. Per un anno intero rimase isolato da tutti, incupito, incapace di condividere questa sua sofferenza. Solo dopo un percorso con lo psichiatra riuscì a confessarlo.

«Questo per dire che non tutti i trami sono uguali, chi cura deve essere in grado di distinguere le diverse sorgenti del dolore. Ci sono sofferenze politico sociali differenti. Le voci dei torturati sono discorsi sulla storia, sul presente ma anche sul futuro ». Un futuro che si costruisce senza avere la pretesa di inserire le sofferenze dentro a delle categorie diagnostiche. Su questo punto non ha dubbi Beneduce: «una delle prime regole sul trauma, sulla tortura è che sono storie imprevedibili, ho imparato molto dai miei pazienti. C’è chi sembrava uscito dal trauma per poi ricaderci per eventi banali. Abbiamo la necessità di nuove categorie, di nuovi termini perché ciò che sta accadendo non si lascia interpretare da ciò che è già standardizzato».

Allora il primo passo importante è la relazione che si crea con la vittima di violenza, come è fondamentale non banalizzare perché la sovraesposizione della violenza alla fine rischia di rendere passivo lo spettatore. «Non abbiamo gli strumenti adeguati per accogliere le donne vittime della tratta – ha denunciato Cistina Rissi, operatrice in un centro di accoglienza – manca un percorso nazionale adeguato per sostenerle ». Solo lo scorso anno il Gruppo Abele attraverso lo sportello trampolino ha intercettato oltre 150 donne, prevalentemente nigeriane tra i 18 e i 30 anni. Tante di loro giunte in Italia convinte di trovare un lavoro, intrappolate tra ricatti e riti voodoo, raccontano che solo dopo diversi colloqui con gli operatori, sentono di poter aver fiducia e trovano la forza di uscire dalla loro condizione di sfruttamento. In questo percorso il Gruppo Abele può contare sul sostegno di una realtà importante e di eccellenza torinese: l’associazione Frantz Fanon. Da vent’anni professionisti con diversa formazione aiutano le persone con traumi.

«Lavoriamo con loro su vari fronti, compresa l’idea del seminario in corso – spiega Mirta Da Pra Pocchiesa, coordinatrice del Progetto vittime del Gruppo Abele – Questo seminario in cui raccogliamo i bisogni che vengono presentati dagli operatori e ci confrontiamo su cosa portano gli immigrati e le loro culture diversi è solo un tassello di un cammino che continua».