Attualità

Il modello. Cooperative di comunità, l'Italia dimenticata

Luca Mazza venerdì 24 ottobre 2014
Prendiamo il caso di un ipotetico signor Mario Rossi, 80enne residente in un paesino con meno di 200 abitanti: se non ci fosse qualcuno a consegnargli la spesa a casa, dal piccolo negozio di alimentari, lui non avrebbe la forza di caricarsi di buste pesanti con viveri e bevande. Poi c’è sua sorella, Roberta, di un paio d’anni più grande, a cui viene fornita un’assistenza domiciliare una volta a settimana per effettuare terapie specifiche che, altrimenti, il settore pubblico non sarebbe in grado di garantirle. Ma nella stessa località vive anche Pietro, 30 anni, che, se non avesse trovato un impiego in campo forestale, si sarebbe dovuto trasferire chissà dove per procurarsi un lavoro. Così, invece, non si è allontanato dalla moglie Chiara, che nel frattempo ha contribuito a trasformare una masseria fatiscente del paesino in un moderno agriturismo. La giovane coppia di sposi, inoltre, ha una figlia di sei anni, Lucia, che ogni mattina va alla scuola elementare più vicina (a 20 chilometri di distanza) grazie al servizio bus organizzato appositamente per lei e gli altri quattro bimbi del posto. Questo è soltanto un esempio di circolo virtuoso che si è innescato grazie alla progressiva diffusione nella Penisola delle cooperative di comunità, un modello di sviluppo lanciato dall’Alleanza delle cooperative italiane (la centrale dove sono riunite Legacoop, Confcooperative e Agci), con cui si punta a favorire il protagonismo dei cittadini nella gestione dei servizi e nella valorizzazione dei territori. Si tratta di coop polifunzionali che provvedono ai bisogni degli anziani (con la cura o la consegna a domicilio di spesa e farmaci); al potenziamento del turismo laddove la proloco ha chiuso (tracciando itinerari paesaggistici o organizzando eventi per attirare visitatori); alla creazione di lavoro per le nuove generazioni (soprattutto nell’ambito del dissesto idrogeologico nelle molte aree nazionali considerate a rischio). Per ora non siamo di fronte a numeri clamorosi. Ma il successo ottenuto con le prime operazioni pilota è il segnale che è silenziosamente in atto un piccolo boom. Si può prendere come modello il borgo di Melpignano (Lecce), dove, grazie a una cooperativa di comunità, sui tetti di tantissimi edifici pubblici e privati sono stati installati mini pannelli fotovoltaici ed è stato attivato anche un distributore automatico di acqua potabile microfiltrata con l’obiettivo di ridurre i costi e diminuire l’utilizzo di bottiglie di plastica. Altrettanto significativo è quanto avvenuto nella frazione di Cerreto Alpi (Reggio Emilia), dove cinque soci- lavoratori si occupano principalmente di forestazione, agricoltura e promozione turistica. «Le coop con tali caratteristiche nate recentemente sono circa 60 – afferma Maurizio Davolio, il responsabile di Legacoop che sta monitorando il fenomeno –, a cui vanno aggiunte però altre realtà storiche che potrebbero tranquillamente rientrare nella definizione di cooperative di comunità». Quali sono le esperienze positive che proseguono già da decenni? «Nell’arco alpino esistono 77 cooperative elettriche che forniscono energia a oltre 300mila persone. Il cittadino è al tempo stesso utente, consumatore e socio dell’impresa che eroga il servizio – spiega Claudia Fiaschi, vicepresidente di Confcooperative –. In centri come Storo, Morbegno e Prato allo Stelvio (dove è consentito produrre e distribuire energia elettrica) si è riusciti persino a cablare il territorio e a fare teleriscaldamento».  Ovviamente l’habitat naturale per veder sorgere queste imprese sociali 2.0 è rappresentato proprio dalle zone dello Stivale ad alto rischio spopolamento, dove i ragazzi fuggono per l’assoluta mancanza di opportunità occupazionali e i pochi anziani rimasti fanno sempre più fatica a sopravvivere a causa della penuria dei servizi presenti. Del resto, in contesti a bassa densità demografica è più semplice veder realizzata l’auto-organizzazione dei cittadini in risposta ai loro bisogni. E l’Italia è piena di centri di piccole dimensioni. Nel Belpaese si contano 5.683 comuni con meno di 5.000 abitanti (il 70,2% del totale), nei quali vivono oltre 10 milioni di persone, il 17% della popolazione complessiva. Il bacino potenziale delle cooperative di comunità, dunque, è enorme. Per sfruttarlo a pieno – ed espandere ancor di più questa nuova fattispecie – è indispensabile ottenere un riconoscimento giuridico. Al momento solo la Puglia ha varato un provvedimento regionale ad hoc. «Servirebbe l’impegno di Parlamento e governo per approvare una normativa simile alla legge 381 sulle imprese sociali», propone Davolio. Anche secondo Fiaschi è necessario creare le condizioni ideali per lo sviluppo di questi strumenti, soprattutto in prospettiva futura: «Col trascorrere del tempo lo Stato dovrà lasciare sempre più spazio all’intervento del privato nei servizi sociali e le cooperative di comunità potranno essere il pilastro di un nuovo modello di welfare che sia davvero sussidiario ed efficiente».