Attualità

Gli uomini della scorta. Cinque eroi quotidiani ma non restino anonimi

Giulio Isola venerdì 16 marzo 2018

«A morte le guardie». L’ultimo sfregio è di due mesi fa, quando i soliti ignoti hanno imbrattato con tanto di svastiche la lapide in memoria dell’eccidio della scorta di Aldo Moro. Cinque uomini, caduti sotto le sventagliate di mitra dei terroristi alle 9 di mattina di 40 anni fa in via Mario Fani angolo via Stresa, zona di Monte Mario a Roma. «Non immaginavamo che fossero così impreparati – dichiara oggi Adriana Faranda, che partecipò personalmente al rapimento –. Credevamo che si aspettassero una cosa del genere. Puntavamo sulla sorpresa, ma non sapevamo se ci sarebbe stato qualche morto anche dalla nostra parte».

Invece morirono i due carabinieri a bordo dell’auto di Moro e i tre poliziotti che viaggiavano sull’Alfetta bianca al seguito: «La scorta armata, composta da cinque agenti dei famigerati Corpi Speciali, è stata completamente annientata», si lesse poi nel primo comunicato con la stella a cinque punte. Si seppe poi che alcuni poliziotti avevano addirittura deposto le armi nel bagagliaio, del resto l’anno con il maggior numero di minacce per l’onorevole era stato il lontano 1974 (tanto che all’epoca il presidente Dc – racconta oggi la figlia Maria Fida Moro – «aveva deciso di far trasferire la scorta al completo ad altri servizi, perché non voleva che morissero tragicamente. Ma i membri della stessa, avendolo saputo in modo ufficioso, erano andati dalla mamma perché intercedesse per farli restare 'perché non volevano che papà morisse da solo'»).

Alla fine insieme sono morti loro, in via Fani; Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi, questi i nomi. Il capo della scorta era il maresciallo Leonardi, 52 anni, al servizio di Moro dal 1963: 15 anni durante i quali aveva maturato col politico un rapporto di stima e di affetto fortissimo, peraltro reciproco. Tutte le mattine era lui che andava a ricevere il leader democristiano all’uscita di casa accompagnandolo all’auto, una Fiat 130 scura nella quale poi Leonardi prendeva posto sul sedile anteriore, a fianco dell’autista. Lì lo colsero i colpi dei brigatisti: e forse fu il primo a morire, come un vero capo pattuglia, ma non senza aver tentato di girarsi per far abbassare Moro.

Alla guida stava invece l’appuntato Domenico Ricci, marchigiano, 44 anni, arruolatosi nell’Arma come tantissimi figli di contadini (lo fece anche suo fratello) perché era uno dei pochi sbocchi possibili per sperare in un dignitoso riscatto sociale. Abile nella guida veloce, proprio per questo venne assegnato alla scorta di Moro già nel 1957; ma la sua capacità di autista purtroppo non gli servì a sfuggire alla manovra di imbottigliamento cui lo costrinse una vettura dei terroristi. Ricci lasciò due figli piccoli, 10 e 12 anni. Sulla macchina al seguito stavano i tre agenti di pubblica sicurezza, i più giovani della scorta. Il vicebrigadiere pugliese Francesco Zizzi aveva 30 anni e stava al volante in quanto capo-equipaggio; era in polizia da appena 6 anni e da due aveva vinto il concorso per sottufficiale: ciò che gli aveva permesso di cominciare a progettare le nozze con la fidanzata; sempre per stare più vicino alla sua ragazza aveva chiesto il trasferimento da Latina a Roma.

Fu l’unico a non morire sul colpo nell’agguato di via Fani, ma qualche ora dopo all’ospedale Gemelli. Con lui c’erano gli agenti Raffaele Iozzino, 25 anni di Casola (Na), e Giulio Rivera, molisano ventiquattrenne. Il primo, arruolatosi ad appena 18 anni e tiratore scelto, riuscì ad aprire la portiera posteriore e a scendere per rispondere al fuoco incrociato di 6 armi: sparò due volte in effetti, ma servì a poco. È suo il corpo che, bersagliato da ben 17 colpi e coperto da un pietoso lenzuolo, giace supino e con le braccia allargate come un cristo sull’asfalto nelle foto più drammatiche di quel giorno. Poco altro si sa dei 5 'Eroi di via Fani', cui di recente lo storico e giornalista Filippo Boni ha dedicato un libro meritorio: perché ricorda non solo i nomi ma anche le storie dei 5 uomini che troppo spesso sono stati citati soltanto come «la scorta di Moro».