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La consulta. Mirabelli: «Chiuse le porte all'eutanasia»

Angelo Picariello domenica 24 novembre 2019

«Con questo pronunciamento la Corte Costituzionale chiude e non apre Prevede la non punibilità in casi specifici di rifiuto di sostegno vitale già previsti dalla legge sulle Dat ed esclude gli altri» «Per i medici non si configura solo un mero diritto all’obiezione, ma un vero e proprio 'non obbligo'. Mentre sulle cure palliative viene introdotta la necessità di rendere effettivo il principio». Il presidente emerito della Consulta Cesare Mirabelli (Siciliani)

«Nessun via libera all’eutanasia. Anzi. In questa sentenza vedo paletti di restrizione, non di apertura», dice Cesare Mirabelli. Per il presidente emerito della Consulta, viene riaffermato il diritto fondamentale alla vita e il dovere dello Stato di proteggerla, e «non viene sdoganato l’aiuto al suicidio, ma solo esclusa la punibilità quando ricorrano alcune particolari e tassative condizioni, che la sentenza elenca. Casi nei quali il rifiuto sempre possibile di trattamenti necessari per il mantenimento in vita avrebbe portato alla morte. Si è agganciata alle procedure di garanzia previste dalla legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento. Solo in questi casi, e dopo che è stato reso disponibile un percorso di cure palliative, l’aiuto al suicidio non è stato ritenuto punibile».

Come si configura allora, questa sentenza, potendone ora leggere le motivazioni?
Riassume e ripercorre l’ordinanza precedente, naturalmente. Vi sono però un paio di precisazioni interessanti. La prima, più chiara, è che non vi è un obbligo di prestare assistenza al suicidio, e viene invece affermata la libertà di scelta per il medico.

Forse questo è l’aspetto più rilevante.
Sì, perché l’obiezione di coscienza presupporrebbe un obbligo di pre- stare assitenza al suicidio. La garanzia assicurata è più forte, implica che non si è in presenza di una prestazione sanitaria dovuta e valorizza la deontologia professionale, che esclude che il medico compia atti che provochino la morte del paziente, anche se ne è richiesto.

E l’altra precisazione importante?
È meno netta, ma riguarda anche le istituzioni sanitarie. Il Servizio sanitario nazionale è coinvolto per assicurare che sussistano le garanzie previste per la capacità della persona e le modalità di raccolta della sua volontà, la correttezza delle procedure, la valutazione del comitato etico, l’offerta di un percorso di cure palliative. Ma non viene affermato un 'diritto alla prestazione' che debba essere fornita obbligatoriamente dalle strutture pubbliche o convenzionate con il Servizio sanitario nazionale.

Resta quindi spazio e libertà di operare per i sanitari e, in genere per gli uomini di buona volontà, di proporre una cultura della vita?
Sicuramente. C’è molto da fare per contribuire a diffondere una cultura della vita, riaffermata come diritto fondamentale, e concorrere a sostenerla effettivamente anche nelle condizioni di difficoltà. Ripeto, non viene configurato un diritto alla prestazione nei confronti del servizio pubblico. Viene solo assegnata ad esso una funzione di garanzia. Ed è da valorizzare il forte richiamo all’effettività della pratica delle cure palliative.

Per il legislatore che cosa ne consegue?
Il legislatore non deve leggere questa sentenza come una legittimazione dell’eutanasia. Anzi, il segnale che arriva tende a limitare e non ad ampliare. E vengono posti dei paletti ben precisi, in base ai quali non potrà essere utilizzata la Consulta per tentare di dilagare verso una deriva eutanasica.

Sul piano normativo che cosa deve essere precisato, allora?
Questa sentenza è auto-applicativa, ed estende a nuove fattispecie un regime di garanzie già in vigore per le dichiarazioni anticipate di trattamento. L’intervento legislativo si può semmai configurare in riferimento al passato, ma i paletti attuali sono già ben chiari in riferimento al futuro.

Ma allora tutto questo entusiasmo del fronte eutanasico è immotivato, se non strumentale?
È motivato solo se si vuol partire da questa sentenza per andare a disciplinare casi che la Consulta ha tenuto fuori.

Serve un intervento legislativo per scongiurare una giurisprudenza creativa?
La sentenza è già sufficientemente restrittiva. Non vorrei che l’intervento legislativo tendesse viceversa ad ampliare. Eviterei di invocare norme che potrebbero diventare un incoraggiamento ad andare oltre. I limiti che sono stati posti sono già strettissimi, ripeto, e il rischio che si possa prendere l’occasione per aprire una deriva c’è.

Quali sfide si aprono, ora, per medici e famiglie?
Da un lato resta la libertà di non praticaare atti di aiuto al suicidio, che è qualcosa in più di un mero diritto a obiettare rispetto a un obbligo: non sono, infatti, per niente tenuti a tenere un determinato comportamento. Sono in una situazione di 'non obbligo'. Dall’altro, l’impegno grosso deve essere rivolto ora a rendere operativa la legge già esistente sulle terapie del dolore: c’è un preciso richiamo a rendere effettivo l’accesso alle cure palliative. Deve anzi essere proposto un percorso di cure in tal senso nelle strutture pubbliche. Salvo naturalmente che non vengano rifiutate.