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L’arcivescovo di Vilnius, Grusas. «Chiesa pronta a tendere la mano»

Nello Scavo, inviato a Vilnius ( Lituania) mercoledì 13 ottobre 2021

L’arcivescovo Grusas in un campo profughi in Lituania

Gintaras Linas Grušas, arcivescovo di Vilnius, ha compito 60 anni lo scorso 23 settembre. Due giorni dopo è stato eletto presidente del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa (Ccee). Nato a Washington da profughi lituani (scampati prima al nazismo e poi al comunismo) la famiglia si era poi trasferita in California. Prima di entrare in seminario e all’Università Francescana di Steubenville (contea di Jefferson, Ohio), si è laureato in Matematica e Scienze dell’Informazione alla Ucla di Los Angeles, per lavorare come consulente tecnico all’Ibm. Da sacerdote ha scelto di tornare in Lituania, che con l’80% di battezzati è il Paese baltico con la maggiore presenza di cattolici.

Lei è figlio di migranti, e da pastore vede la Lituania al centro di una pressione quasi unica in Europa: arrivano rifugiati da Paesi come l’Iraq, la Siria, l’Afghanistan, ma anche persone che fuggono dal regime della Bielorussia. Quanto ha contato l’esperienza del migrare nella sua formazione?
La mia famiglia ha vissuto varie forme di migrazione. Mio padre è stato nei campi profughi durante e dopo la seconda guerra mondiale, ma non potendo tornare a casa dopo la fine del conflitto finì per andare negli Stati Uniti. Mia madre e mia sorella rimasero in Lituania, senza sapere nulla della situazione di mio padre per quasi 12 anni. Alla fine, attraverso i canali diplomatici, riuscirono a riunirsi dopo 17 anni, e mia madre e mia sorella ricevettero il permesso di lasciare l’Unione Sovietica per riunire la famiglia. Il dramma umano e familiare che vivono oggi i rifugiati non è lontano da quello di molte famiglie lituane, poiché molti fuggirono in Occidente durante la guerra, mentre molti altri furono deportati in Siberia. Ora di nuovo il movimento dei rifugiati ha toccato la nostra nazione, questa volta con altre persone che giungono ai nostri confini spinti da varie situazioni.

La Chiesa lituana sta affrontando generosamente questo impegno. Ma neanche qui mancano quanti soffiano sulla fiamma dell’odio. Cosa può dire come arcivescovo di Vilnius?
Un aspetto nuovo per noi è l’uso di alcune di queste persone da parte di altri governi, come marionette per influenzare le relazioni governative. Questo a volte lo paragono all’uso di persone innocenti come scudi umani nelle zone di guerra o al traffico organizzato di persone. Ma come Paese che ha avuto una vasta esperienza di rifugiati in passato, e come cristiani, siamo chiamati a tendere la mano a queste persone in difficoltà. Non solo come cristiani, ma anche come espressione della nostra comune umanità.

La questione dei diritti umani e delle migrazioni, dovute a conflitti, emergenze climatiche, sottosviluppo, è comunque un tema ampiamente utilizzato dalla politica in Europa, spesso per ottenere consenso con il risultato di creare forti divisioni. Qual è il suo messaggio soprattutto per i cattolici europei?
Il messaggio di Papa Francesco per la Giornata mondiale dei migranti e dei rifugiati di quest’anno lo riassume bene: che continuiamo a lavorare per una sempre maggiore comprensione del 'noi', la comprensione fondamentale che siamo tutti fratelli e sorelle creati a immagine di Dio. Da questo scaturisce la nostra responsabilità verso il prossimo. Nella nostra mente torna spesso l’eco di quella domanda nel Vangelo: 'Ma chi è il mio prossimo?'. Come voi state raccontando anche da qui, le ragioni della migrazione sono varie. Gli Stati hanno la responsabilità di governare le loro frontiere, di assicurare la pace e la sicurezza, di fermare il traffico di esseri umani, che a volte può nascondersi sotto lo sfruttamento della migrazione, ma è nostra responsabilità aiutare i nostri fratelli e sorelle che arrivano alle nostre porte e provvedere ai loro bisogni umani fondamentali. Come l’uomo trovato sul ciglio della strada nel Vangelo, anche noi dobbiamo riconoscere che i migranti sono davvero il nostro prossimo e dobbiamo agire con misericordia e amore per il prossimo.

Papa Francesco esorta l’Europa a recuperare le sue radici di fraternità. Quale dovrebbe essere l’impegno delle conferenze episcopali europee?
In primo luogo, dobbiamo aiutare i fedeli nei nostri Paesi a recuperare le radici profonde del cristianesimo e della fraternità cristiana, il rinnovamento nel vivere una vita profondamente cristiana. Questo inizia al livello della famiglia e dall’apertura al coraggio dato dallo Spirito Santo di condividere la nostra vita di fede con gli altri nella gioia. Come conferenze episcopali, dobbiamo essere un esempio, una testimonianza, del dialogo che porta a una maggiore fraternità. Essere l’esempio di vescovi, spesso con diversi punti di vista, che nel discernimento si lasciano guidare dallo Spirito Santo. E’ particolarmente importante quando questa discussione avviene tra le varie conferenze episcopali d’Europa, perché mostra che il primato della fede ci unisce attraverso le varie culture.

La pandemia di Covid ha mostrato tutte le risorse e tutte le contraddizioni della casa comune europea. Come presidente della Ccee, qual è il suo messaggio ai leader politici del continente?
Lavorare per il bene comune di tutti i popoli d’Europa e oltre, perché la pandemia di Covid ci ricorda che non siamo né paesi isolati, né un continente isolato. Le decisioni devono essere basate sul rispetto di ogni singola persona e dei suoi diritti, compreso il diritto di scegliere per quanto riguarda l’assistenza sanitaria. I leader politici dovrebbero lavorare per assicurare che non stiamo separando o isolando gruppi all’interno della società, né lasciando vari gruppi di persone senza protezione. I disastri naturali spesso colpiscono i poveri anche più della maggioranza della popolazione. Quindi è molto importante che nella ricerca di soluzioni i nostri leader politici si ricordino dei poveri (in Europa e oltre). La pandemia ha evidenziato quanto siamo tutti interconnessi, quindi la soluzione si troverà prendendosi cura di tutti, specialmente di quei paesi e popoli che meno possono permettersi di prendersi cura di se stessi.

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«La mia famiglia ha vissuto varie forme di migrazione. Ora di nuovo il movimento dei rifugiati ha toccato la nostra nazione» L’arcivescovo Grusas in un campo profughi in Lituania