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Milano. Ecco chi è il venditore di rose spinto nella Darsena. Ora ha paura

Redazione Internet lunedì 20 luglio 2020

Flash mob "Una rosa contro il razzismo" alla Darsena di Milano

Si chiama Sahabuddin Chokdar, ha 55 anni, è sposato ed è padre di cinque figli il cittadino del Bangladesh spinto violentemente nella Darsena la notte tra l'11 e il 12 luglio da due giovani della movida della notte milanese, poi fuggiti. "Ho avuto paura di morire" racconta in un'intervista a Repubblica.

"Ho ripensato alla Libia, nemmeno quando sono stato in carcere lì o sul barcone per raggiungere l'Italia ho provato le stesse cose. E' stato così veloce che non riuscivo a risalire. Stavo annegando, avevo solo un braccio fuori dall'acqua. Poi mi sono sentito afferrare un polso, era un ragazzo che mi tirava fuori. L'ho ringraziato tanto. E anche i poliziotti sono stati gentilissimi con me". Mani che spingono in acqua, mani che salvano dall'acqua. Sempre di ragazzi, chi altri sennò intorno alle 2 della notte nella Darsena milanese. Si tratta solo di scegliere quali mani si vuole essere, quale gioventù si vuole essere, senza rinunciare a divertimento, amici, movida.

La gioventù di Sahabuddin chissà com'è stata. Chissà come si dice movida in bangladescio. Chissà cosa s'intende, o s'intendeva quando aveva vent'anni, per divertimento-amici-bere-insieme. Quando ha lasciato il suo villaggio a Madaripur, otto anni fa, aveva 47 anni e 6 bocche da sfamare oltre la sua. "Lavoravo nei campi, raccoglievo pomodori e cipolle, ma non riuscivo a mantenere la famiglia". E' andato prima in Turchia e poi in Libia. Ma il sogno era "venire in Italia perché ci sono tanti connazionali che riescono a guadagnare qualcosa".

Movida notturna alla Darsena: nonostante i divieti, circola anche alcol. Ieri sera, attorno a mezzanotte, la polizia è dovuta intervenire per una lite in cui due ventenni stranieri si erano feriti a vicenda con un coltello - Fotogramma

In Libia, racconta, ha lavorato come muratore e come scaricatore, "ma sono stato anche in carcere per mesi". "Eravamo detenuti e picchiati senza ragione". Poi la traversata, l'arrivo in Sicilia, il trasferimento in un centro di prima accoglienza ad Aosta e l'agognato permesso di soggiorno per motivi umanitari, in corso di rinnovo. A Milano vive da due anni, in affitto nella portineria di un palazzo popolare, con altri compatrioti. Una sola finestra senza vetri, una bombola a gas collegata a una cucina arrugginita, letti a castello, cibo in scatola. E un cellulare, per chiamare casa. Casa vera, quella dove la famiglia vive.

Dramma nel dramma, il cellulare era finito in acqua. Inutilizzabile. Disperato, e impaurito, Sahabuddin per una settimana non ha potuto inviare un messaggio alla famiglia, che l'ha pianto morto. "Poi i miei amici hanno fatto una colletta e mi hanno comprato un telefonino usato - racconta ancora a Repubblica -. La memoria interna è stata recuperata". La mano che offre aiuto può essere anche quella che ha poco da dare. Anche il poco salva. Meno di venti euro a sera è il guadagno del venditore di rose. Basta a pagare l'affitto - quel tipo di affitto - ma non resta molto da mandare ai familiari. A casa. "Spero un giorno - conclude Sahabuddin - di tornare da loro". Per ora resta lì, in quelle due stanzette stipate, anche quando i suoi amici escono per andare a vendere, la sera. Non si è ancora ripreso da quella violenza. Chissà dove sono i due che lo hanno spinto. Come passano le notti. Dove vivono. Sahabuddin ha paura di incontrarli ancora.