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TENDENZE. Cesarei da record, l'Italia vuole invertire la rotta

Graziella Melina giovedì 26 gennaio 2012
​Venerdì scorso la tragica vicenda di Jessica Rita Spina, la diciannovenne morta all’Ospedale civile San Giovanni di Dio di Crotone dopo un parto cesareo, s’è imposta all’attenzione dei media. Il problema dell’aumento a dismisura dei tagli cesarei, con i gravi rischi che ne conseguono, in realtà è al centro del dibattito politico-sanitario da diversi anni. Ma, come ha rilevato il ministro della Salute Renato Balduzzi, «non si è ancora registrata alcuna significativa inversione di tendenza». In Italia, infatti, il tasso di cesarei (38% nel 2008) è il più alto in Europa, con differenze regionali marcate: si va dal 24% in Toscana e in Friuli-Venezia Giulia al 60% in Campania. Con una percentuale elevata nei reparti con basso numero di parti e nelle strutture private accreditate (60,5%) e non accreditate (75%) rispetto a quelle pubbliche (34,8%).Tra pochi giorni – forse già martedì – il Ministero pubblicherà le linee guida «per il consolidamento delle buone pratiche nell’assistenza alla nascita». Le cause che hanno portato a un aumento eccessivo e sinora irreversibile del taglio cesareo sono molteplici, ma ormai ben note. A cominciare da quelle organizzative. È un dato di fatto, per esempio, che «più piccole sono le strutture, maggiore è il ricorso ai cesarei», spiega Giovan Battista Ascone, direttore dell’Ufficio X del Ministero della Salute, tra i curatori delle nuove linee guida. Non essendoci infatti «uno standard organizzativo e anche strutturale che possa garantire al medico di agire con maggiore tranquillità, e mancando la copertura dell’anestesista», nei piccoli punti nascita il cesareo diventa la strada più facile. Non è da sottovalutare poi, prosegue Ascone, «l’aspetto della medicalizzazione eccessiva della gravidanza, per cui anche la fisiologia viene trattata come la patologia e con gli stessi accertamenti». Aspetti complessi ai quali si intreccia la questione tutta culturale della "medicina on demand": è infatti spesso la donna a chiedere il cesareo, per paura del dolore del travaglio. «Il servizio sanitario però – precisa Eugenia Roccella, ex sottosegretario alla Salute – non eroga servizi su richiesta ma sulla base di criteri di appropriatezza che vengono valutati in primo luogo dal medico». I ginecologi, da parte loro, cercano di tutelarsi da eventuali cause medico-legali. E con il cesareo si sentono più sicuri. Ma in realtà, mette in guardia Giuseppe Noia, responsabile del Centro di diagnosi e terapia fetale del Policlinico Gemelli, così facendo «entrano in un rischio attuale e futuro dovuto a un intervento chirurgico». Non è poi secondario, in questo crocevia di cause, il fatto che «in Italia – rimarca Alberto Zanini, direttore dell’Unità operativa di Ostetricia e ginecologia dell’ospedale Sacra Famiglia Fatebenefratelli di Erba (Como), col record del 10% di cesarei – le funzioni apicali sono gestite da medici ginecologi e non ostetrici». Non solo. L’altra anomalia italiana è che da noi nelle sale parto «c’è molto meno rispetto per l’autonomia delle ostetriche». Che potrebbero benissimo gestire tutti i parti fisiologici. Come accade per esempio al San Gerardo di Monza. «Nel nostro ospedale – racconta Patrizia Vergani, direttore d’area ostetrica della Fondazione Monza e Brianza per il bambino e la mamma – ogni donna è assistita da un’ostetrica in continuazione e in un rapporto uno-a-uno». In questo modo il monitoraggio è «molto specifico, puntuale, intenso. E l’assistenza è con pochissimi rischi». Fondamentale, poi, per la donna la preparazione durante la gravidanza. «Il grande lavoro dell’ostetrica – sottolinea Loredana Zecchin, cofondatrice dell’Associazione ostetriche Felicita Merati – è di far conoscere la bellezza di un parto che, se assistito nei dovuti modi, è un’esperienza assolutamente gratificante». Insomma, rimarca, «bisogna difendere la cultura del parto a servizio del benessere della donna e del bambino». Perché, in fondo, se i cesarei aumentano, a discapito di un rapporto più equilibrato della donna con il parto, la responsabilità è soprattutto culturale. «Oggi tutto ciò che riguarda la parte emotiva della donna e l’importanza del rapporto madre bambino vengono trascurati – ribadisce infatti la psicoterapeuta Giuliana Mieli, autrice del libro-denuncia Il bambino non è un elettrodomestico (edito da Urra) –. Manca completamente una qualsiasi informazione che va data innanzitutto alla coppia» proprio sul senso del parto «che – spiega Mieli – la natura ha voluto lento e graduale perché fosse il più sfumato e meno traumatico possibile. Il dolore del travaglio non è un’ingiustizia divina ma esprime tutta la naturale fatica della separazione».