Attualità

ETICA & GIUSTIZIA. Caso Eluana, i medici contro il Tar lombardo

Enrico Negrotti lunedì 2 febbraio 2009
Denunciano lo stravolgimento della deontologia medica e temono la na­scita di un nuovo medico: «l’acritico esecutore di volontà sanitarie altrui». Contro la sentenza del Tribunale amministrativo re­gionale della Lombardia, che lunedì scorso ha dato torto alla Regione che aveva negato che le strutture sanitarie potessero essere il luogo deputato a portare a morire Eluana En­glaro, si è mosso l’Ordine dei medici chirur­ghi e degli odontoiatri di Milano con un do­cumento che è stato fatto proprio dalla Fe­derazione degli Ordini dei medici lombardi e dall’Ordine dei medici di Bologna. Se il Tar parlava di diritto di libertà assoluto a rifiuta­re le cure, gli Ordini dei medici tornano a sot­tolineare l’importanza dell’alleanza terapeu­tica; se la magistratura amministrativa sem­bra giudicare irrilevante l’obiezione di co­scienza, gli Ordini professionali ricordano il diritto-dovere del medico di operare in scien­za e coscienza, per non essere trasformato in una «nuova figura di esecutore sanitario». La sentenza in questione (la numero 214 del 2009) infatti, per accogliere il ricorso propo­sto dagli avvocati di Beppino Englaro, sostie­ne che «il diritto costituzionale di rifiutare le cure è un diritto di libertà assoluta, il cui do­vere di rispetto si impone erga omnes (cioè verso tutti), nei confronti di chiunque intrat­tenga con l’ammalato il rapporto di cura». E ancora: «La manifestazione di tale consape­vole rifiuto rende quindi doverosa la sospen­sione di mezzi terapeutici il cui impiego non dia alcuna speranza di uscita dallo stato ve­getativo ». Quindi se l’ammalato rifiuta le cu­re viene a «sorgere l’obbligo giuridico (prima ancora che professionale o deontologico) del medico di interrompere la somministrazio­ne di mezzi terapeutici indesiderati». Non si tratterebbe di eutanasia, continua il Tar, «ben­sì la scelta insindacabile del malato a che la malattia segua il suo corso naturale fino all’i­nesorabile exitus». Infine il rifiuto della Lom­bardia «non può giustificarsi in base a ragio­ni attinenti l’obiezione di coscienza» perché la struttura ospedaliera deve comunque ga­rantire la prestazione. Quindi, secondo il Tar, ricoverata Eluana in una struttura pubblica per esercitare il suo «diritto» a rifiutare le cu­re, le dovrà essere garantito adeguato accu­dimento «durante tutto il periodo successivo alla sospensione del trattamento di sostegno vitale; rientrando ciò a pieno titolo nelle fun­zioni amministrative di assistenza sanitaria». L’impostazione del provvedimento del Tar viene contestato alla base dall’Ordine dei me­dici di Milano e della Lombardia, nonché da quello di Bologna. Dopo aver ricordato che la sentenza «costituisce un ulteriore passo in a­vanti lungo una via sbagliata, quale è quella giudiziaria per risolvere un caso che attiene al sentire più profondo dell’animo umano», gli Ordini dei medici sottolineano come «sor­prende come nella suddetta sentenza il si­gnificato di concetti quali dignità, autono­mia, disponibilità della vita venga dato uni­vocamente per acclarato, facendone discen­dere impegnative conseguenze e superando d’un balzo il lacerante dibattito che investe la nostra società». Ma nell’ambito che attiene più specifica­mente all’attività professionale, gli Ordini dei medici sono « molto preoccupati dalla pretesa di un organo amministrativo di de­finire il confine tra ciò che è, nell’ambito del­l’atto medico, terapia e sostentamento » . U­na preoccupazione estesa « al ruolo che vie­ne delineato per il medico, nel momento in cui gli obblighi professionali e, soprattutto, deontologici vengono concettualmente su­bordinati a quelli giuridici. Preoccupazione ancora più sentita se si ag­giunge il divieto all’obiezio­ne di coscienza » . Quindi gli Ordini dei medici invitano « a riflettere sui principi che di fatto vengono spazzati via, in primis quelli di libertà in scienza e coscienza e di alleanza terapeutica, senza i quali non esisterebbe la medicina » . Infine viene de­nunciato «che in questo mo­do si creerebbe una nuova figura di esecutore sanitario molto lontana dal medico, una figura che deve acritica­mente limitarsi a prendere atto di ciò che “rientra a pie­no titolo nelle funzioni am­ministrative di assistenza sa­nitaria” » .