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Le voci. «Caschi blu in Ucraina e non armi». Il popolo della pace chiede la svolta

Luca Liverani martedì 1 marzo 2022

La marcia per la pace organizzata dal Sermig di Torino

Inviare armi all’Ucraina per resistere all’invasione russa non è la soluzione. Perché è come usare benzina per spegnere un incendio. Perché le armi arriverebbero tardi e con un alto rischio di finire in mani sbagliate come è già successo tante altre volte. Associazioni e movimenti per la pace, laici e cattolici, criticano la decisione del governo italiano. Inefficace e dannosa, prima che immorale.

«Noi siamo col Papa – dice Francesco Vignarca di Rete italiana Pace e disarmo – che dice che le armi non sono mai la soluzione». E allora? «L’unico intervento possibile, oggi, è il peace keeping. Che effetto farebbe l’arrivo in Ucraina da ovest di 50 mila Caschi blu Onu per l’interposizione?». Ma perché non mandare armi? «E come le portiamo? Quando arriveranno? E siamo certi – chiede Vignarca – che non finiranno in mani sbagliate? Armare gli oppositori di Gheddafi ha portato la pace in Libia? E in Siria? In Afghanistan? E dovrebbe funzionare con Putin?. Non solo è sbagliato eticamente, ma non ottiene il risultato voluto».

E poi spedire armi «ci fa tornare indietro di 40 anni rispetto alle conquiste fatte col Trattato sul commercio delle armi (Att), ratificato dall’Italia nel 2013 e all’Europa». A chi chiede più investimenti per contrastare la Russia, Rete pace e disarmo ricorda che «la Nato già oggi spende 1.100 miliardi di dollari contro i 62 della Russia, 18 volte tanto. E solo l’Europa, senza la Gran Bretagna, 233 miliardi. È la prova che la deterrenza non ha senso. In 20 anni la spesa militare è quasi raddoppiata, 2mila miliardi nel 2020. Le quotazioni del comparto bellico sono passate dal 10 al 17% in pochi giorni».

Altre armi non fermeranno la guerra. «Una volta che il conflitto si scatena – dicono alla Comunità di Sant’Egidio – è incontrollabile, per questo serve un forte movimento per la pace. Ora l’appello per "Kiev città aperta" non sono solo belle parole, è stato portato da Andrea Riccardi all’attenzione delle ambasciate russa e ucraina presso la Santa sede e ad altre rappresentanze diplomatiche». Sant’Egidio sottolinea che «se i combattimenti proseguono, fino a costringere la popolazione di Kiev a difendersi, sarà una carneficina. Lo abbiamo già visto a Sarajevo, ad Aleppo, a Varsavia nel 1944». E poi «bisogna pregare per la pace, perché i cuori si aprano ad una visione che ora non c’è. La preghiera per la pace non è un accessorio. Come il digiuno chiesto da Francesco per il 2 marzo. È la visione di Giovanni Paolo II che dopo l’11 settembre andò ad Assisi».

Ernesto Olivero, fondatore nel 1964 del Sermig di Torino, il Servizio missionario giovani, ha appena guidato il corteo di bambini che hanno consegnato la bandiera della pace del Sermig al sindaco di Torino: «Le armi – dice Olivero – non possono decidere del destino delle persone, deve essere la nostra ragione. Dobbiamo credere che la pace dipende da noi, se ci crediamo finalmente la pace bussa alle nostre coscienze e diventa realtà».

Silvia Stilli, portavoce di Aoi, Associazione Ong Italiane, fa notare che «il nostro Paese, che "ripudia la guerra", va oltre l’invio di contingenti militari ai confini, fornendo armi all’Ucraina e inasprendo il clima di guerra. L’Italia si ritiene ingaggiata nel conflitto, pur non essendo obbligata da alleanze. Comprendo le ragioni di un popolo che resiste, ma non è la strada da intraprendere, mentre le piazze dicono no alla guerra e sì al dialogo. L’Europa ha deciso troppo tardi con le sanzioni, anche sul blocco Swift, per poter trattare sul gas». E ricorda: «Il movimento pacifista ucraino ha scritto: non inviate le armi».

«Sono stato tante volte in Iraq, in Palestina, con don Tonino Bello a Sarajevo», racconta don Renato Sacco, consigliere nazionale di Pax Christi. «Sì, la gente chiedeva armi. Ma noi, solidali con le vittime della guerra, se vogliamo spegnere la follia non possiamo esserne coinvolti. Il 1° marzo è l’anniversario del muro di 700 km costruito in Israele. C’è una risoluzione di condanna dell’Onu, non della Nato. Dovremmo forse armare i palestinesi. O i curdi contro la Turchia? Da cristiani dobbiamo dare massima solidarietà alle vittime, non spargere benzina». «Qualsiasi cosa è utile, meno che soffiare sul fuoco inviando altre armi», dice anche Flavio Lotti, coordinatore della Tavola della pace della Perugia Assisi: «L’unica strada è il negoziato e il dialogo. E dobbiamo avere ben chiaro che armare l’Ucraina ci fa entrare in guerra contro la Russia. Quando gli Stati Uniti hanno armato gli oppositori dei Talebani, le armi sono finite nella mani di chi volevano combattere. È come liberalizzare il porto d’armi per combattere la criminalità. È la "diplomazia delle armi", che ora ci sembra più nobile, ma segue le stesse dinamiche della guerra. Ammazzare un altro po’ di russi non convincerà Putin a fermarsi».

«La resistenza all’invasione è parte dei percorsi legittimi da parte delle popolazioni che la subiscono», ragiona Franco Uda, responsabile pace di Arci: «Altra cosa è l’invio delle armamenti. Il tema non è finanziare l’apporto di ulteriori armi che provocano una escalation del conflitto ma sostenere quella parte di popolazione che sta resistendo senza recare danni ulteriori. Serve un impegno forte per una de-escalation, la risposta umanitaria deve essere parte decisiva della risposta dell’Europa e del nostro governo. Dobbiamo sostenere la società civile ucraina e russa che, con rischi enormi per la propria incolumità personale, sta manifestando. Emergono le prime crepe nel sistema militare, con le diserzioni che vanno sostenute e protette, forti del diritto internazionale. Se l’Europa ha stanziato dei fondi per la guerra in Ucraina, li usi per la cooperazione internazionale, le organizzazioni umanitarie e la popolazione inerme, la sua difesa civile non armata e non violenta».