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Intervista. Cartabia: «I giovani sono la priorità. C'è un'emergenza esistenziale»

Angelo Picariello mercoledì 23 dicembre 2020

Marta Cartabia, presidente emerita della Corte costituzionale

La pandemia ha riportato alla luce che la realtà non è, come avevamo creduto, «totalmente sotto il nostro controllo». La presidente emerita della Consulta Marta Cartabia ha rivestito questo incarico, di custode dei valori costituzionali, in una fase straordinaria che ne ha comportato una loro compressione. Uscire da questa emergenza significherà tornare a guardare ai giovani come a una urgente «priorità», per non far mancare loro quei «maestri» che sono fondamentali nella formazione umana, prima ancora che professionale.

A Pisa, in occasione del conferimento del dottorato honoris causa in Law della Scuola superiore Sant’Anna, Cartabia ha rimarcato la necessità che l’università «torni a essere la priorità tra tutte le priorità», da preservare come «bene essenziale per il formidabile compito affidatole di offrire alle nuove generazioni la possibilità di mobilitare le proprie forze vitali, le proprie energie costruttive». Occorre ripartire dal «capitale umano». Perché è «nel soggetto e dal soggetto che può scaturire l’energia capace di contrastare la paura che paralizza, l’incertezza che mortifica le ambizioni e demoralizza ogni slancio». Ma facciamo un passo indietro.

L’emergenza della pandemia ha comportato un’importante compressione dei diritti e della libertà.
Che i diritti e le libertà individuali siano limitati e limitabili non è una novità. Alla vigilia della pandemia eravamo immersi in una cultura segnata da un eccesso di individualismo alimentato dall’illusione della autodeterminazione e della libertà assoluta del singolo. I grandi sviluppi della società tecnologica, inoltre, hanno coltivato negli anni più recenti un altrettanto illusorio senso di onnipotenza. L’emergenza sanitaria ci ha costretti a un brusco risveglio. Dietro l’apparenza di invincibilità, la pandemia ha riportato in primo piano l’esistenza della realtà che – nonostante la potenza, i progressi e gli indiscutibili benefici della scienza e della tecnologia – non è mai totalmente sotto il nostro controllo. Il grande valore della libertà della persona – che è a fondamento della nostra convivenza civile e sempre deve essere preservato – deve fare i conti con una realtà che non è totalmente a nostra disposizione e, soprattutto, deve fare i conti con l’esistenza dell’altro, degli altri. C’è un noi, oltre che un io. Per questo, nella vita sociale le libertà non sono mai assolute.

Ma si è avuta, a volte, la percezione che si sia ecceduto… Con quali criteri valutare queste limitazioni?
La nostra Costituzione richiede una garanzia non frammentata di tutte le esigenze della persona, a tutela della sua dignità. Ciò implica che, a seconda del contesto, si può rendere necessario circoscrivere - in misura più o meno significativa - l’uno o l’altro dei diritti, mantenendo sempre uno sguardo integrale, olistico sulla persona. Il difficile compito di chi ha responsabilità pubbliche è valutare, nella condizione concreta data, quali siano le restrizioni necessarie e verificare sempre che siano proporzionate allo scopo; e soprattutto interrogarsi se esistano strumenti meno restrittivi che perseguano gli stessi obiettivi. Integralità della tutela della persona e proporzionalità delle limitazioni sono le coordinate fondamentali da rispettare in questo difficile lavoro di bilanciamento dei diritti, che deve continuamente adeguarsi al variare della situazione concreta.

Ma c’è un ordine di priorità…
Certo. Ogni decisione che sacrifica un aspetto della vita personale e sociale a favore del libero svolgimento di altre attività esprime un ordine di priorità e delle scelte di valore. Credo che questo sia il tempo in cui occorre fermarsi e riflettere su quali siano le priorità che si vogliono perseguire, posto che la situazione impone e imporrà comunque dei sacrifici a tutti, forse per lungo tempo.

Quali priorità vede come più urgenti?
Penso soprattutto alle giovani generazioni, che mi pare siano colpite più di altri da alcuni effetti collaterali dell’emergenza, anche se stanno superando con minore difficoltà i problemi strettamente sanitari. Occorre guardare in faccia con lealtà e coraggio la situazione di fatto: c’è un’emergenza sanitaria che sta portando con sé, oltre che una crisi economica, un’emergenza esistenziale, forse anche spirituale, che non deve essere sottovalutata e alla quale sono esposte soprattutto le giovani generazioni.

Cosa intende per emergenza esistenziale?
Se c’è una caratteristica che contraddistingue in modo evidente questo nostro tempo, è il senso di insicurezza e precarietà che la pandemia porta nella vita di ciascuno, a livello personale e nella dimensione collettiva. Viviamo nell’incertezza, esposti a variabili indipendenti dalla nostra volontà e questo genera paura, ansia. Viviamo giorno per giorno, ma gli orizzonti spazio–temporali tendono a chiudersi su se stessi e perdiamo la capacità di pensare con pensieri lunghi, rivolti a progetti che non si esauriscano nell’immediato. Il virus che si propaga in questa pandemia lascia per molto tempo nel fisico una stanchezza anomala: occorre vigilare affinché questa non prosciughi anche le energie morali. Dobbiamo prevenire un secondo spillover della malattia, che dopo aver colpito l’umanità nel corpo non ne intacchi l’animo. Ad essere esposti a questo spillover sono soprattutto i giovani. Verso di loro, che saranno chiamati alla grande ricostruzione, portiamo una enorme responsabilità.

Di che cosa hanno più bisogno i giovani?
Iniziamo a dire di che cosa non hanno bisogno. In un’interessante riflessione sul mondo che vivremo, Chiara Giaccardi e Mauro Magatti osservano che occorre guardarci da due reazioni tanto comuni quanto improduttive: sognare il ritorno a una situazione a rischio–zero, che coincide con una forma di diniego della realtà, o rimanere imprigionati nella paura. In un momento della storia non meno drammatico del nostro, preso nella morsa delle due guerre mondiali, segnato dalla grande depressione economica del 1929, dalla piaga della “spagnola” e dal cupo orizzonte dei totalitarismi dilaganti in Europa, il presidente americano Franklin Delano Roosevelt nel suo discorso di insediamento si rivolgeva alla popolazione dicendo che «l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa». È la paura che può bloccare, paralizzare e infine deprimere. La questione essenziale del nostro tempo è vivere i cambiamenti in atto e il futuro che non sappiamo immaginare come terre sconosciute sì, ma da esplorare, convertendo le fonti di rischio in moltiplicatori di opportunità.

Che cosa può aiutare questo cambiamento di sguardo?
Mi permetta di fare un riferimento alla Divina Commedia che sto rileggendo anche sollecitata dal 700° anniversario dalla morte di Dante. All’origine di quella formidabile avventura di vita e di conoscenza che ha consegnato all’intera umanità nella Commedia, troviamo un incontro decisivo: è l’arrivo inaspettato e sorprendente del maestro Virgilio a consentire a Dante di liberarsi dalla paura e dal disorientamento nel momento più oscuro della sua esistenza: è lui che lo rassicura e lo rimette in cammino. Meglio: lo accompagna nel cammino, non solo mostrandogli una strada, una direzione, una via percorribile, ma mettendosi in moto con lui. È in un incontro inatteso – come quello che celebriamo nel Natale – che si aprono nuovi orizzonti, è lì la sorgente della motivazione che abilita al cammino, qualunque sia la condizione data. La presenza di Virgilio rende la selva oscura occasione irripetibile per una esplorazione inimmaginabile: non risolve l’avversità esterna, ma rende sicuri, vince la paura, perché sa suggerire una via percorribile per quanto ardua. Se c’è qualcosa che può contrastare lo scoramento di questa epoca è la presenza di qualcuno più avanti nel cammino che si faccia nostro compagno e nelle cui orme possiamo posare il piede, procedendo così dietro a le poste de le care piante.