Attualità

Missione di pace. Un capitano (donna) disarmato in Medio Oriente

Angelo Picariello venerdì 19 settembre 2014

Un capitano disarmato in servizio per la pace al confine di Israele. Erica Calibeo è la prima donna italiana osservatore Onu. Abruzzese, 34 anni, nell’esercito da 14, proveniente dal settimo reggimento trasmissioni, è inquadrata da gennaio nella missione Untso, (United Nations Truce Supervision) con sede a Gerusalemme. «È la missione più antica dell’Onu – spiega - operativa fin dal 1949». Una missione per sorvegliare sulla tenuta della tregua in Medio Oriente, la cui durata (65 anni) racconta di una miriade di fallimenti, ma anche di una speranza di pace che non muore mai. La sua personale missione la svolge al confine con il Libano, interagendo fra due nazioni che non si riconoscono ma che almeno hanno imparato a vedere il valore del silenzio delle armi, che tacciono dal 2006. Merito della missione Unifil a guida italiana – a fine luglio il generale Luciano Portolano è subentrato a un altro italiano, il generale Paolo Serra – alla quale è assegnato il capitano Calibeo. Per vigilare sulla “Blue Line” la linea armistiziale fra Libano e Israele, tracciata da piloni blu (il colore dell'Onu) destinati un giorno a diventare un vero e proprio confine condiviso. Una frontiera ancora contesa in tanti punti, che diventano paradossalmente laboratori di convivenza fra popolazioni “condannate” a coesistere per via della politica che non si mette d’accordo sulla loro assegnazione. «Ed è lì che operiamo noi, per “osservare” le violazioni della Blue line e dalla risoluzione 1701 che regolò la cessazione delle ostilità fra Libano e Israele». Un lavoro complesso con un doppio riferimento operativo, Gerusalemme (sede di comando della missione Untso) e Naqoura, sulla costa Sud del Libano (sede del comando Unifil). Quando riesplode il conflitto in Israele sale la tensione anche nei campi palestinesi del Sud del Libano, ma per fortuna ci sono stati solo episodi isolati di lanci di razzi, individuati e circoscritti. «In quei momenti anche per noi scattano alcune restrizioni nei movimenti. Ma niente scorte. Non operiamo mai armati, la gente lo sa».

Lo sa ad esempio la gente di Ghajar, piccolo villaggio sciita alawita situato in quella zona di confine ad Est su cui anche la Siria ha antiche rivendicazioni. Località strategica: è attraversata dallo Wezzani River, che alimenta il lago di Tiberiade, in Galilea, fonte di approvvigionamento idrico fondamentale per quella regione di Israele. Innumerevoli tentativi di regolare la questione non sono andati a buon fine, ma un equilibrio precario si è comunque raggiunto. Israele ha ridotto le sue aspettative sulla parte Nord del paesino, a patto che sia permesso di raggiungere un’area di pompaggio dell’acqua dove spesso si deve intervenire per guasti all’impianto. Israele a volte ostenta la sua presenza armata per dare l'idea che non rinuncia alle sue rivendicazioni. «Noi monitoriamo tutto e registriamo le violazioni, col binocolo. Ma non è mai successo niente di grave, le gente transita liberamente da una zona all'altra. E questo dà l’idea che si possa insegnare la pacifica convivenza, proprio in questi casi in cui si è costretti a coesistere». Altrettanto accade in un’altra area contesa, Shebaa farms, le 14 fattorie di Shebaa, ex territorio siriano, zona limitrofa alle alture del Golan. Terre di pascoli contesi e sconfinamenti di pecore e pastori. «Anche se non è condivisa noi vigiliamo su quella che per noi è linea armistiziale, e registriamo tutte le violazioni».

L’episodio più grave accaduto, il fermo di due pastori con il gregge. Si era già parlato di rapimento. «Ma è bastato il nostro intervento di osservatori Onu a registraare l’episodio, e c’è stato subito il rilascio». Storie che fanno pensare. Forse anche in Medio Oriente per la pace si può fare tanto, senza bisogno di armi. «La gente ci vede come una garanzia. Se per qualche giorno non vedono in giro la nostra jeep con la bandiera blu dell’Onu si preoccupano. “Temevamo foste andati via”».