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Assemblea. Caos Pd, a un passo dalla scissione. Renzi mette al sicuro il simbolo

Roberta D'Angelo giovedì 16 febbraio 2017

Quello che ha da dire Matteo Renzi lo dice in mattinata con la sua e-news. Il segretario del Pd traccia la sua road map, che lo porterà al Lingotto, luogo simbolo per il partito, che da lì spiccò il volo carico di speranze e aspettative con Walter Veltroni. E nella sua agenda, l’ex premier ha segnato tutto il percorso, blindando ruoli e deleghe: dimissioni domenica, reggenza del partito al presidente dell’Assemblea Matteo Orfini, modifica dello Statuto per mettere in cassaforte il simbolo del Pd – con l’aria di scissione che tira – da affidare al tesoriere dem Francesco Bonifazi. Uomini di fiducia, per conservare il coltello dalla parte del manico. La partita a poker ha inizio. E Renzi sembra poco impressionato dalle urla che arrivano dalle diverse anime della minoranza interna, pronta a mollarlo. La vera scissione, per lui, è avvenuta con il referendum del 4 dicembre. Domenica si aprono i giochi. Il segretario in procinto di lasciare confida nella presenza di tutti. Vorrebbe scongiurare la frattura, ma è certo che qualunque cosa concederà, la sinistra sposterà l’asticella. Ed è anche certo di non volersi lasciar cuocere a fuoco lento da Bersani, Emiliano e Rossi, che insistono per rinviare le primarie in autunno.

Un timing che lascerebbe celebrare le amministrative nelle città più ostiche come Genova e Taranto prima del confronto nei gazebo, dove, in caso di sconfitta, l’opposizione dem sarebbe pronta ad accusarlo di non aver parlato alla gente. Dunque, l’ex premier parte per la sua campagna elettorale. Prima tappa Milano, con le sue nuove leve Nannicini e Bussolati. A Roma i ministri Delrio, Franceschini e Martina insieme con Fassino studiano una via di uscita. Hanno compreso le ragioni renziane, e soprattutto hanno constatato le resistenze del leader dem a spostarsi oltre. Il vicesegretario Guerini corre da una riunione all’altra. L’obiettivo è tenere insieme il partito. Ma l’arma della scissione resta puntata su largo del Nazareno. Bersani, Cuperlo, Speranza, con i dalemiani, si spingono fino al limite. Si attende un segnale dai piani alti, ma il segnale non arriva. La minaccia di non partecipare all’Assemblea appare spuntata di fronte alle parole secche diffuse in rete da Renzi. Bersani attende invano una telefonata dall’ex premier. Le linee, invece, restano roventi tra i componenti della sinistra, dove i due governatori pronti a contendersi la segreteria, Rossi ed Emiliano, sono decisi a sfidare Renzi a partire da domenica. Loro assicurano che all’Assemblea ci saranno. E allora Bersani cede. Fa sapere che lui anche andrà a vedere chi bluffa.

Ma se a tirare la corda il rischio è che si spezzi, è il guardasigilli Orlando l’unico in grado di risolvere la situazione. Di lui si fidano nella minoranza. E di lui si fida Renzi, pronto anche a una corsa con il suo ministro della Giustizia alle primarie, piuttosto che vedere il Pd in frantumi. Potrebbe essere proprio questa la via della sinistra interna per designare un candidato unico. Orlando, allora, riunisce la sua corrente dei 'giovani turchi', in cui Orfini (ormai più vicino a Renzi) viene messo in minoranza. Un braccio di ferro che dura ore e si chiude con la mediazione fragile, ma senza alternative. Un documento in cui si chiede lo svolgimento della conferenza programmatica che Renzi aveva rifiutato lunedì in Direzione, visto che – aveva detto il segretario – qualche mese fa fu proprio la minoranza a non volerla fare, dopo che lo stesso segretario si era detto disponibile. Insomma, un’intesa sulla conferenza da svolgere prima delle primarie appare l’unica soluzione. Insieme ad un rinvio dell’appuntamento ai gazebo, da fissare tra fine aprile e la prima settimana di maggio. Ecco allora il documento per sancire la tregua, che esce dalla sofferta riunione: «Abbiamo bisogno di un percorso largo e aperto, che ci permetta di ridefinire il progetto del Pd coinvolgendo militanti, elettori, cittadini, intellettuali, forze economiche e sociali. La proposta di un confronto programmatico, nella fase iniziale del percorso congressuale, ci sembra, in questo quadro, utile e condivisibile » e «per evitare derive scissioniste».