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Braccianti morti. Indagini sul caporalato, l'arcivescovo: "No all'indifferenza"

Fulvio Fulvi lunedì 6 agosto 2018

Indagini a tutto campo sul caporalato. Perché forte è il sospetto che l'incidente di sabato pomeriggio sulla provinciale 105 tra Ascoli Satriano e Castelluccio dei Sauri, in provincia di Foggia, nel quale sono morti quattro braccianti nordafricani, sia avvenuto in un contesto di sfruttamento del lavoro e di marginalità sociale. Gli investigatori si muovono sia per capire l'esatta dinamica dello scontro tra un tir carico di pomodori e il furgone dove viaggiavano i giovani immigrati, sia per sapere se le vittime, e gli altri occupanti del camioncino fossero stati reclutati per lavori nei campi dai caporali che reclutano braccianti in questa zona del foggiano per la raccolta dei pomodori. Intanto centinaia di braccianti riunitisi domenica sera in assemblea nell'ex ghetto di Rignano su iniziativa dell'Unione Sindacale di Base, hanno deciso di scioperare per l'intera giornata di mercoledì, con un corteo dei "berretti rossi" che partirà alle 8 da Torretta Antonacci, nel comune di San Severo.

L’impatto tra i due veicoli è stato frontale e violento: oltre ai quattro morti, tutti trovati senza documenti (Amadou Balde, 23 anni, della Guinea, Ceeay Aladje, gambiano, 20 anni, Moussa Kande, 27enne, Ali Dembele, del mali, di 30 anni), ci sono stati altrettanti feriti, ricoverati agli Ospedali Riuniti di Foggia, gravi, ma per fortuna fuori pericolo. Le cause e la dinamica dell’incidente, come abbiamo detto, sono ancora al vaglio della polizia stradale, ma una cosa appare certa: il furgone, senza finestrini, stava riportando “a casa” i cittadini africani dopo una giornata di lavoro nelle coltivazioni orticole della zona. Braccianti esposti a ogni rischio, e spesso senza tutele. Persone costrette alla sopravvivenza tra le baracche dei ghetti, giovani disperati disposti a tutto pur di lavorare. E a tal proposito, l'arcivescovo metropolita di Foggia-Bovino, Vincenzo Pelvi ha parlato di «migranti uccisi dal frutto del loro sudore» facendo un appello alla popolazione locale e alle autorità perché di fronte a quanto accaduto non via sia indifferenza.

Il fenomeno del caporalato si è allargato ormai in tutto il Paese, senza zone franche. Un giro di affari che raggiunge quasi 5 miliardi di euro. Dal Piemonte alla Sicilia sono sempre più frequenti i casi di lavoratori sfruttati, braccianti, soprattutto di origine straniera, uomini, donne e bambini, utilizzati in attività massacranti, per 10-12 ore al giorno, e sottopagati, costretti a vivere nel degrado totale, comandati e ricattati da mediatori senza scrupoli che fanno presa sulla disperazione e sulla paura.
A luglio Avvenire ha cercato ancora una volta di “scoperchiare la pentola” con un viaggio tra i nuovi schiavi: in quindici giorni, otto pagine di inchieste e servizi per osservare da vicino l’“inferno” nei campi dove si raccolgono agrumi, pomodori, olive, mirtilli o cipolle, ma anche negli allevamenti di bestiame del “profondo Nord” e nelle baracche che ospitano gli sfruttati. Sono stati scoperti dei veri e propri ghetti controllati dai racket e qualche volta collegati ai centri di accoglienza dei profughi dove viene reclutata la manodopera, come è accaduto vicino a Padova. Ma esistono pure realtà “invisibili” o sommerse come quella di Ribera, nell’Agrigentino con edifici dormitorio privi di finestre – ma racchiusi in un contesto di normalità – dai quali escono ogni giorno all’alba centinaia di giovani tunisini mandati nei campi a raccogliere le arance Navel. E abbiamo scoperto che il caporalato si muove pure in terre non sospette come l’Emilia-Romagna: nel Cesenate c’erano cooperative fantasma che cominciavano a dare anticipi di un quasi stipendio a lavoratori nordafricani per poi sparire nel nulla. E abbiamo saputo anche di donne pagate 3 euro l’ora costrette a turni di 12, come a San Giorgio Jonico, in provincia di Bari, dove tre anni fa morì consunta dall’immane fatica la bracciante italiana Paola Clemente. E di bambini rom comprati a un’euro l’ora nel vergognoso mercato di braccia nelle strade tra Mondragone e Villa Literno (Caserta). Umiliati e offesi come gli schiavi della macchina per cucire che nei laboratori gestiti dai cinesi a Prato sono costretti a imbastire stoffe per 14 ore di seguito. A Terracina (Latina) gli uomini e le donne destinati ai campi agricoli vengono messi all’asta addirittura nella centrale via Gramsci e, se sono africani, pagati di meno. Nel Napoletano i bengalesi sono ritenuti la “merce” migliore da destinare alle ditte che lavorano per i brand della moda. La piaga segna decisamente anche la pianura del foggiano intorno a Cerignola, come abbiamo detto, dove una comunità di religiose guidata da suor Paola Palmieri cerca di alleviare le sofferenze degli sfruttati. Nella Piana di Gioia Tauro, a San Ferdinando (Reggio Calabria), il caporalato è divenuto un business anche per i pastori che reclutano tra i migranti il “personale” per accudire le loro greggi. Tutti dicono di avere un regolare contratto. Ma non è così. Sono circa 20mila (la metà stranieri) i braccianti nella Piana del Sele, vicino ad Eboli (Salerno) che lavorano per 12 ore rinchiusi in serre a respirare l’aria infestata dai pesticidi. Nel Pavese è stata stroncata dalla Finanza una rete di 40 cooperative che imponevano turni disumani, senza riposi nè ferie, anche a donne incinte chiamate a lavorare nelle fabbriche di Stradella.