Attualità

Reportage. Bicocca, l'oggi cerca le sue radici

Claudio Monici lunedì 17 febbraio 2014

C'erano le fabbriche e tanti operai che sembravano formichine blu e andavano su e giù, in bicicletta, a piedi, con cacciavite e schiscetta (il pranzo che si portava da casa) nella saccoccia della tuta da metalmeccanico. Le finestre delle casupole di Borgo Pirelli, vibravano quando passavano tram con gli impiegati e treni straripanti d’acciaio, che ancora era notte. Ma c’era un luogo dove al buio non era concesso di entrare, dove la fonderia irradiava il bagliore dell’altoforno che non veniva spento mai. E poi c’erano tante lotte operaie, bandiere rosse che sventolavano e slogan sindacali. "Ghe né pü". Bisogna venirci di mattina presto nella Bicocca operaia, e immaginarsela come era una volta. Tutta bassa e operosa di lavoro e sudore, di calli sulle mani, i tetti delle officine di tegole rosse, il clangore del lavoro. "Ghe né pü". Scompare anche lo storico e bel edificio dell’Istituto ricerche Breda: celato dal cantiere dove si sta costruendo un grande albergo che se lo fagociterà, per altri impieghi. Ma ci vorrebbe un venditore di ricordi, per farsi aiutare nella domanda che scivola brusca sulle labbra, di quel perché che non riusciamo a riordinare: il sole dov’è finito? Sì, perché ci deve esser stato qualcuno che ha pensato che forse di questa stella si può fare a meno, anche se non è il solo caso nella Milano che pretende di vestirsi di moderno, e fa niente se per farlo tronca e soffoca gli orizzonti. Proprio dove c’è il Centro traumatologico ortopedico di via Bignami, un ospedale nato con le fabbriche per ricomporre, e di sole ne avrebbe bisogno, i traumi sul lavoro, e che oggi, per lo più, rimette a posto vecchietti fratturati e motociclisti incidentati, cala cupa l’ombra di una enorme parete di cemento e finestre alta 14 piani. Palazzi tirati su così molto a ridosso della strada, che non lasciano respiro neppure al marciapiede. Farli dieci metri più arretrati, no? Fosse solo il respiro di un marciapiede e del suo pedone. Sempre lì, dove c’erano un tempo le portinerie della Breda, emerge l’ulteriore evidenza di una illegalità esibita e altresì concessa che ormai fa di Milano una città su cui garrisce la bandiera nera dell’anarcoautomobilismo. Sì, perché proprio sotto quei 14 piani di finestre e balconi che contano 700 nuovi appartamenti, le automobili vengono lasciate parcheggiate sulla corsia di marcia. E buona pace al codice della strada. Bicocca 2000, cantiere in movimento, dove ancora esiste un’ultima area campestre libera, poco prima della stazione Greco-Pirelli, adiacente all’Università, che affaccia su via Chiese. Una "sacca vuota" che doveva concedersi all’ospedale Besta, ma che invece sarà soggiogata sicuramente da altri e alti palazzi con vista panoramica sulla ferrovia e centri commerciali. «No, non esiste più il mondo delle tute blu. Come la in fondo, dove finisce viale Sarca, dove c’è Sesto San Giovanni, dove sono stato parrocco degli operai del villaggio Falck. Sa che una volta la chiamavano la Stalingrado d’Italia? Ma nemmeno più in Russia la ghe pü sta città». Don Giuseppe Buraglio mastica dialetto milanese a raffica, quando parla "delle" sue Bicocche, un pezzo di Milano che si sviluppa su tre direttrici parallele di alta velocità: viale Sarca, "Bicocca 2000", quello della "Breda", Fulvio Testi, "Bicocca nuova", e Suzzani, "Bicocca vecchia". Dove si trova la parrocchia, ancora resiste la Milano della memoria operaia, di là, invece, dove c’è quella grigia teoria di parallelepipedi di cemento senza espressione, che inglobano edilizia civile e università, sta cambiando anche la popolazione, per lo più giovani coppie, e studenti universitari. Non c’è più il maglio che fa tremare la terra, ma l’armoniosa rotondità dei concerti e degli spettacoli rappresentati nel Teatro Arcimboldi. Forse il vero fiore all’occhiello. Da quindici anni parroco della chiesa di san Giovanni Battista, don Giuseppe, ancora ricorda di quello che don Carmelo, un suo predecessore, negli anni Cinquanta, chiese al vicario generale di allora: «Celebrare una Messa alle quattro del pomeriggio di domenica: "altrimenti – diceva – come faccio a star dietro ai tre turni degli operai?. Sì, ho fatto in tempo ad assiste alla fine di un epoca: alla morte della fabbrica e al sorgere di una città nuova, ma ho visto anche una trasformazione antropologica. L’uomo di allora, l’uomo che era a contatto con la fatica, il sudore del lavoro, abituato al sacrificio, era diverso da quello moderno, aveva minori esigenze, e una enorme generosità». Con la scomparsa dell’industria pesante e la trasformazione dell’archeologia industriale in edilizia civile, la popolazione si è moltiplicata: «Quando sono arrivato, si contavano 7mila residenti, oggi saremo 13mila – calcola don Giuseppe –. In gran parte giovani coppie, con una buona occupazione e un buon livello sociale. La sacca di povertà resta relegata nelle due case popolari di via Asturie: 280 appartamenti, per lo più di anziani inquilini, anche se, di questi tempi, si sta aggiungendo nuova disperazione. Il Centro di ascolto della parrocchia fa i salti mortali, quando bussa una famiglia che ci racconta di non avere neppure una sedia su cui riposare».

Un tempo qui tutto stava nel palmo di una mano, di qua le case di là la fabbrica. Le vie si conoscevano, le voci si lanciavano un saluto, i panni erano stesi sul ballatoio, i bambini giocavano sulla strada; oggi passare per questi luoghi a mezzogiorno entrando nell’irrequieto brulicare umano, o venirci a mezzanotte, quando la notte è deserta e quieta, è come entrare in un mondo di sommovimenti tellurici: gli operai, cosi come per i milanesi, ad un certo punto cessano di esistere, la piazza del Duomo, questa Milano che si trasforma, continua la sua avventura. «Aveva ragione don Carmelo. Passa così tanta gente in Bicocca, che quando è tempo di Quaresima e faccio la via Crucis, ne aggiungo una terza alle 13, nella pausa pranzo. La chiesa si riempie, ed è la più frequentata», saluta don Giuseppe.