Attualità

30 ANNI SULLA SCENA. Ascesa a caduta del Re dei padani

Giorgio Ferrari venerdì 6 aprile 2012
«Strinatemi questa testa canuta. Tu, tuono scotitore del mondo, spianala d’un colpo al suolo questa compatta sfera del globo, rompi gli stampi di natura; disperdi tutto e tutti insieme ai germi onde si genera, mostro d’ingratitudine, l’uomo». I versi del Re Lear scespiriano sono forse troppo nobili per un finale così teatralmente ordinario, qual è l’atto conclusivo dell’avventura politica e umana di Umberto Bossi, tradito e gabbato – a quanto si capisce e si apprende – dai più prossimi fra gli affetti, dai suoi stessi pretoriani che vegliavano occhiuti su quell’improbabile cerchio magico nel quale da anni ormai era recluso, imprigionato, sordo al mondo e al fluire delle cose. Si dirà magari, un domani, che più che un Re Lear Bossi è stato – da ultimo – un Rigoletto, cui meglio si attagliano i versi impietosi di Piave: «Coi fanciulli e co’ dementi, spesso giova il simular...». Perché in quell’uomo vulnerato dall’infermità fisica e da mesi ormai costretto all’irrilevanza politica, in quel leader di partito un tempo fulmineo nelle sue intuizioni, che ora inveisce ringhioso contro i reporter giustamente insistenti, invocando il pestaggio da parte della scorta, quasi gli agenti messi a proteggerlo fossero dei bravi manzoniani al suo esclusivo servizio, che risolve nei gesti apotropaici e nei motteggi da osteria la mesta sintesi del proprio pensiero, c’è tutto il dramma di una parabola malamente conclusa e portata, non per sua esclusiva colpa, alle sue estreme, mortificanti conclusioni.Sembra passato un secolo da quell’esordio nel 1982, quando questo sconosciuto quarantunenne di Cassano Magnago, figlio primogenito di un operaio e di una portinaia, studi irregolari e interrotti varie volte, fonda insieme all’amico Roberto Maroni e all’architetto Giuseppe Leoni la Lega Autonomista Lombarda, su modello dell’Union Valdôtaine. Non è ancora la stagione di “Roma ladrona”, ma Bossi viene folgorato sulla sua personale via di Damasco da una parola che pronuncerà milioni di volte nei successivi vent’anni: federalismo. Nessuno gli bada, a quell’epoca. Nemmeno quando, nel 1987, si guadagna uno scranno a Palazzo Madama (da lì l’appellativo di Senatùr, che lo accompagnerà per sempre), in tandem con Leoni, che diventa il primo deputato della Lega. Ci vorranno ancora due anni perché il movimento (all’origine un arcipelago di sigle disseminate per tutto il Nord, nate da un diffuso malcontento nei confronti della classe politica) assuma la fisionomia di un partito vero e proprio, e altri tre, prima che alle politiche del 1992, in piena Tangentopoli, la Lega Nord sfondi a spese soprattutto della Dc, ridotta al suo minimo storico. Ma il vero botto avverrà nel 1994, quando Bossi si allea con la neonata “Forza Italia” di Silvio Berlusconi, facendo man bassa di voti e di poltrone, un vero ciclone sociale e massmediale, oltre che politico.La Lega dilaga, Bossi ha un record di preferenze, il ceto medio del Nord lo applaude, imprenditori, magistrati, intellettuali, giornalisti gli si gettano ai piedi. Lo affianca, insieme alla pattuglia di fedelissimi della prima ora (oltre a Maroni, Speroni, Pagliarini, Formentini, Borghezio) un pensatore di rango come Gianfranco Miglio, ex preside di Scienze Politiche all’Università Cattolica a Milano, da un po’ in odore di eresia per quella sua sulfurea propensione a perseguire il federalismo con ogni mezzo, come uno dei suoi amati maestri – Niccolò Machiavelli – prescriveva. Per qualche tempo la popolarità del professore comasco surclassa quello dello stesso Bossi. Ne scaturirà una gelosia che finirà per emarginare il brillante studioso di Carl Schmitt e autore delle Contraddizioni dello Stato unitario, relegato a un posto di consolazione al Senato mentre il ministero per le Riforme Istituzionali andrà al meno ambizioso Speroni.Alla carica quasi rivoluzionaria che la Lega incarna si accompagna una scaltrezza politica che nessuno avrebbe mai immaginato in quel malinconico senatore, cui fino a pochi anni prima nessuno rivolgeva la parola. Bossi è spiazzante, imprevedibile, fuori schema, sia che si mostri – mussolinianamente? – a torso nudo o in canottiera, o bocci l’Inno di Mameli sostituendolo con Va’ pensiero, o passeggi nel parco di Arcore a braccetto con Berlusconi. Al quale riserva a pochi mesi dal trionfo elettorale un coup de théâtre degno di lui, togliendogli la fiducia e dando vita al famigerato ribaltone.Ma la Lega, Bossi lo ha capito, da quel momento è in grado di camminare da sola. Le elezioni del 1996 la premiano con un 10,8% a livello nazionale (il 30% in Veneto e il 25% in Lombardia) e Bossi, con un altro colpo di scena, cambia marcia. Al mito del Carroccio, di Alberto da Giussano, del Barbarossa sconfitto dai lombardi, ora associa quello celtico di un’immaginaria e molto immaginata Padania, terra segnata e percorsa dal Po, per la quale il Senatùr s’inventa un rito sul Monviso con tanto di ampolla di acqua surgiva da versare nell’Adriatico, dove il grande fiume padre della pianura alluvionale si va a disperdere. Da quel giorno l’Italia una e indivisibile si accorge di avere un spina nel fianco: al federalismo (il cui significato e la cui applicazione pratica Bossi non ha mai voluto completamente chiarire) il Senatùr abbina un altro e ben più minaccioso termine, secessione, allestendo – ai margini della legalità – un sedicente Parlamento del Nord alle porte di Mantova. Bossi ancora non lo sa, ma la parabola discendente di quella “Lega di lotta e di governo” è già iniziata. Alle elezioni politiche del 2001, dopo cinque anni di opposizione ai governi di centrosinistra e la ritrovata alleanza con Berlusconi nella Casa delle Libertà, il movimento non andrà oltre il 3,9%.Gli ultimi anni Bossi – e non soltanto lui – li ricorderà probabilmente come un piccolo calvario. Non solo fisico (nel 2004 lo colpisce un ictus che lo tiene lontano per mesi dalla vita politica attiva e gli impone una lunga sconfortante riabilitazione), ma anche politico e forse umano. Alle brillanti sortite tattiche il Senatùr affianca ormai il ringhio quotidiano contro ogni potere, istituzione e realtà difforme dalla sua visione a senso unico, dal Quirinale alla magistratura, passando per i vescovi italiani, cui non ha mai lesinato improperi e rimproveri.Fino a quel cappio (un contrappasso per quello stesso cappio agitato dai suoi deputati nell’aula parlamentare, ricordate?) che gli si è serrato attorno al collo nelle ultime ore, travolto da un’indagine che lo colpisce al cuore degli affetti e che, a prescindere dall’esito giudiziario, lo espropria per sempre di quella purezza leghista che da sempre esibiva, sorella gemella di un’altra grande decaduta, la diversità comunista, anch’essa da tempo finita nella polvere delle miserie quotidiane. Il resto è silenzio.