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Arsenali in offerta. Le nostre armi ai regimi. E cresce anche l'import

Nello Scavo venerdì 28 aprile 2017

Il 50% del valore delle esportazioni (7,3 miliardi) deriva dalla fornitura di 28 caccia Eurofighter al Kuwait (Ansa)

Il boom di export militare italiano è perfino superiore a quanto la lettura dei nudi dati possa far credere. Se è vero che le autorizzazioni governative per le consegne all’estero hanno raggiunto quota 14,6 miliardi nel 2016 (+85% rispetto al 2015), un confronto con le relazioni ministeriali dell’ultimo quinquennio fa scoprire che il dato dello scorso anno costituisce un +452% rispetto al 2014. Il 50% del valore delle esportazioni (7,3 miliardi) deriva dalla fornitura di 28 caccia Eurofighter della Leonardo al Kuwait che sale al primo posto come mercato di sbocco per l’Italia. Ma oltre il 60% delle nostre armi finirà a Paesi fuori da Unione Europea ed esterni alla Nato. «Al di là del preoccupante livello raggiunto dalle autorizzazioni all’export militare e della problematicità di alcuni Paesi destinatari - commenta Francesco Vignarca, coordinatore di Rete Disarmo -, l’elemento che maggiormente ci preoccupa riguarda la soddisfazione sia della Presidenza del Consiglio che del Ministero degli Esteri per l’aumento delle vendite di armamenti italiani».

Anche l’incremento delle importazioni ha raggiunto livelli record: nel 2016 l’import ha toccato i 612 milioni di euro, con un aumento del 169% rispetto al 2015. L’82% del materiale d’armamento è stato acquistato dagli Stati Uniti. Il ruolo del governo e specialmente dell’Uama (Unità per autorizzazione dei materiali d’armamento), sarebbe quello di controllore allo scopo di rilasciare autorizzazioni in linea con le indicazioni della legge, tenendosi alla larga dallo sponsorizzare questo o quel missile. «Come possiamo però fidarci di un arbitro e di un controllore che - denuncia Vignarca - continua in un certo senso a fare il tifo per la produzione armiera italiana e per la sua diffusione in tutto il mondo?». Proprio il Kuwait (7,7 miliardi) è al primo posto tra gli 82 paesi destinatari di armamenti italiani. E ai primi posti figurano anche Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Turchia, Pakistan. Il tenore del rapporto anticipato ieri da Avvenire lascia trasparire toni da ultras.

«L’obiettivo è quello di coniugare una crescente efficienza - si legge - sia del servizio pubblico che delle società, a tutto vantaggio della competitività degli operatori sui mercati internaziona- li, nonché dell’immagine dello stesso operatore e del sistema Paese». E ancora: «L’Italia è stata classificata terza per numero di Paesi di destinazione delle vendite, dopo Usa e Francia, a dimostrazione di una capacità di penetrazione e flessibilità dell’offerta nazionale all’estero. L’Italia è stata altresì classificata fra i primi 10 per valore delle esportazioni». A spingere il comparto non sono stati solo gli Eurofighter. «Se infatti nel quinquennio 20102014 il fatturato si attestava mediamente intorno ai 3 miliardi di euro, ora – osserva Maurizio Simoncelli, vicepresidente dell’Istituto di ricerche Archivio Disarmo – abbiamo conferma di un salto a livelli superiori dato che già nel 2015 (prima dei contratti per i caccia al Kuwait, ndr) si era giunti ad 8 miliardi di euro di autorizzazioni alla vendita».

Nel 2016 il valore delle autorizzazioni all’esportazione e dei trasferimenti ha riguardato solo per il 36,9% i Paesi membri Ue e della Nato (5,4 miliardi) che per la gran parte, cioè per il 63,1%, sono stati diretti a nazioni extra europee e al di fuori del- l’Alleanza Atlantica (9,2 miliardi). In particolare, tra le zone geopolitiche di esportazione, figurano al primo posto i paesi dell’Africa Settentrionale e del Medio Oriente che con oltre 8,6 miliardi euro ricoprono da soli più del 58,8% delle autorizzazioni. Fornire armi e sistemi militari a questi regimi, «oltre a contribuire ad alimentare le tensioni, rappresenta – commenta Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio sulle Armi leggere e le politiche di Sicurezza e Difesa (Opal) di Brescia – un tacito consenso alle loro politiche repressive».