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Commercio d'armi. Svelato il trattato Italia-Niger: apre un nuovo mercato bellico

Luca Liverani giovedì 7 febbraio 2019

Carabiniere italiano addestra militari nigerini

L’accordo militare segreto Italia-Niger – promosso dal governo Gentiloni nel 2017 e avallato dal governo Conte – è generico, poco trasparente e pieno di vulnus giuridici e democratici. Soprattutto, equipara di fatto un paese sub-sahariano ai partner Nato, vanificando i possibili paletti della legge 185 su future esportazioni di armi italiane. Una procedura disinvolta, adottata di frequente negli ultimi anni - eclatante il caso Somalia nel 2013 - che già nel 2005 veniva denunciata dall’allora senatore ed ex ministro della Difesa, Sergio Mattarella. Un trattato che dichiara esplicitamente tra i suoi obiettivi quello dell'esportazione di armi: «Ricerca e sviluppo, supporto logistico ed acquisizione di prodotti e servizi per la difesa».

A rivelare il contenuto del trattato militare, stipulato il 26 settembre 2017 tra Roma e Niamey per la gestione dei flussi migratori e della sicurezza, sono l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), la Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili (Cild) e Rete disarmo. Dopo l’annuncio dell’intesa con Niamey l’allora governo Gentiloni, adducendo ragioni di sicurezza e interessi bilaterali, si era rifiutato di renderne noti i contenuti. La legge però riconosce ai cittadini il diritto di conoscere i testi degli accordi internazionali. Grazie a un accesso civico, Asgi e Cild hanno presentato istanza al Tar del Lazio per conoscere il contenuto del trattato, così come le due lettere inviate dal Niger all’Italia. Sul primo, le organizzazioni hanno ottenuto ragione dal Tar, che ha ordinato alla Farnesina la consegna del documento. Per le lettere, il Tar ha detto no: mancherebbero gli estremi per accogliere l’istanza.

Almeno tre gli aspetti problematici. Il primo punto di criticità dell’accordo riguarda la forma: poca trasparenza, scarso controllo democratico su accordi ratificati solo successivamente (e più o meno a scatola chiusa) dal Parlamento. L’accordo redatto in forma semplificata «ne ha permesso l’attuazione prima che arrivasse il via libera del Parlamento», denuncia Francesco Vignarca, coordinatore di Rete Disarmo. Il trattato ad oggi non è ancora entrato in vigore, ma di fatto ha già provocato «l’invio in Niger di circa 20 militari italiani, sui 470 previsti prima che le Camere lo approvassero, o semplicemente conoscessero la natura della missione». Un modo, dicono gli esperti, per aggirare l’articolo 80 della Costituzione che, per gli accordi internazionali, prevede il sì del Parlamento. Il testo dell’accordo poi «è costituito da appena 8 pagine, quindi è poco dettagliato, un "copia-incolla" di trattati precedenti» che «lascia spazio a elementi non pertinenti». Un esempio? «Questo accordo prevede l’"accesso di navi", ma il Niger non ha neanche le coste»: in mezzo al Sahara, senza sbocco sul mare.

Il secondo punto di criticità dell’accordo con Niamey è nel suo carattere promozionale di sistemi di arma italiani: «Sembra si voglia aprire una cooperazione industriale, peraltro monodirezionale – avverte Gennaro Santoro, legale di Cild – sfruttando un accordo nato invece per la gestione dei flussi migratori e la sicurezza». Una «cooperazione industriale» tra due Paesi (di cui solo uno è produttore di armi) che si traduce in un viatico per le esportazioni. Si comincia «con la donazione di sistemi d’arma dall’Italia al Niger», primo passo per far conoscere sistemi italiani. Così si apre un canale per l'acquisizione di ricambi, per la manutenzione e - un domani -per l’acquisto dei mezzi già "provati" gratuitamente. Era successo con l’Albania, di recente con le motovedette donate alla Libia, anche se per uso non strettamente militare. Ma perfino, negli anni scorsi, con l'invìo mezzi blindati a Gibuti, lo staterello incastrato nel Corno d’Africa, dove peraltro le Forze armate italiane hanno dal 2013 una base militare. E proprio nel 2013 un accordo con uno stato problematico come la vicina Somalia ha previsto la cessione, nel 2015, di veicoli multiruolo. Il tutto ratificato dal Parlamento a cose fatte, solo nel 2016.

Il terzo punto di criticità dell’accordo è nella sbrigativa equiparazione ai paesi Nato di stai africani o mediorientali. Un modo per "bypassare" le maglie, in realtà sempre più forzate, della legge 185/90 sulle esportazioni di armi. L’allarme arrivò già il 3 maggio 2005 dal senatore Sergio Mattarella - ministro della Difesa dal 1999 al 2001 - durante il dibattito sull’accordo con l’Algeria: «Le questioni sono, in primo luogo, l’interpretazione degli accordi che di fatto aggira, disapplicandole, le normali procedure di controllo della legge 185», diceva con chiarezza Mattarella. Quindi, proseguiva, «l’equiparazione di qualunque altro paese ai paesi che fanno parte della Nato o dell’Ue», con i quali l’Italia «non avrà più in questa materia un rapporto speciale».