Attualità

Profughi in Salento con i corridoi. «A Kabul non c'è nulla. Per questo partiamo»

Antonio Maria Mira, Tricase (Lecce) martedì 28 marzo 2023

In una strada di Kabul, con i taleban al governo dall'agosto 2021

«Sul barcone naufragato a Cutro c’erano dei miei amici. Sono morti tutti. Ho telefonato nel mio Paese per dire che non partano, che è pericoloso, ma partiranno lo stesso». A parlare è Jawid, 28 anni, afghano. E le sue parole sono indirettamente una risposta alle affermazioni della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. «Quello che è successo a Cutro mi fa molto arrabbiare - aggiunge - ma lo so che continueranno a partire. Partono perché in Afghanistan non c’è lavoro, le scuole sono chiuse, le università sono chiuse. Ed è pericoloso vivere lì».

Ne è convinto anche Fayaz, 28 anni, anche lui afghano. «Continueranno a scappare, a venire in Europa, perché la situazione è pericolosa, i taleban vogliono tappare la bocca a tutti». E anche lui fa precisi esempi. «Non c’è lavoro, tutto è chiuso, le donne non possono andare né a scuola né al lavoro, e neanche andare da un dottore. Niente. E allora è meglio partire. Non abbiamo speranza, non abbiamo futuro. Chi viene qui non tornerà più». E lancia un appello. «Voglio che le autorità capiscano la nostra situazione. Noi abbiamo perso tutto». Lui è nato a Nangahar nel 1995. Figlio di un dirigente scolastico e di una casalinga. Ha tre fratelli e due sorelle e la sua vita ha conosciuto le tante crisi e guerre del suo Paese. Da bambino ha visto il primo avvento dei taleban che hanno isolato il Paese, poi dopo l’11 settembre del 2001 ha vissuto in un Paese devastato da una guerra terribile. Ha studiato per 14 anni e poi ha frequentato per due anni l’accademia militare. Alla fine del conflitto si è trovato a vivere in condizioni difficili e giovanissimo ha iniziato a lavorare per l’esercito e a collaborare con la Nato. Dopo anni di guerra, quando sembrava che una esile tregua potesse resistere agli scontri tra fazioni, nell’agosto del 2021 tutto è crollato e i taleban hanno ripreso il potere. Chi aveva lavorato per gli occidentali si è trovato a doversi nascondere, per sfuggire alla loro vendetta. Così il 7 agosto 2021 ha lasciato l’Afghanistan.

«Ho passato il confine col Pakistan in montagna, pagando chi mi accompagnava». Ma ha dovuto lasciare la giovane moglie. «Insieme non ce l’avremmo fatta, ma vorrei tanto che mi raggiungesse. Ora vive nascosta». Fayaz è in Italia da un mese, grazie ai corridoi umanitari della Caritas, accolto dalla diocesi di Ugento-S. Maria di Leuca, presso l’oratorio della Parrocchia Madonna delle Grazie di Tutino in Tricase, grazie alla disponibilità data dal parroco, don Pasquale Carletta. «Fayaz - ci spiega il direttore della Caritas diocesana, don Lucio Ciardo - ci è stato segnalato dal fratello Farhad che lavora per Frontex e che abbiamo conosciuto negli ultimi anni durante le operazioni di soccorso di barche provenienti dalla Turchia presso il porto di Leuca. Con lui abbiamo stretto una sincera amicizia».

In queste settimane Farhad è proprio a Crotone, per collaborare con le autorità italiane per il naufragio di Cutro. Ora per Fayaz inizia una nuova vita. «Ora sono felice. Voglio andare a scuola e poi lavorare. Non voglio finire a dormire per strada su un cartone». «Sarà un anno durante il quale la comunità sarà coinvolta in un cammino di accoglienza, protezione, promozione ed integrazione, attraverso il supporto dell’équipe della Caritas diocesana» ci spiega ancora don Lucio.

È anche la condizione di Jawid, giunto in Italia col nipote Hamed il 12 agosto 2021, con un aereo Usa, dopo la caduta di Kabul. Cinque fratelli lavoravano per gli americani, lui dopo il diploma universitario aveva aperto una farmacia.

Ora sono ospiti del Sai di Tricase gestito dal consorzio “Sale della terra”, ma temono per il futuro. Jawid vorrebbe lavorare in una farmacia ma, ci spiega, «il riconoscimento del mio diploma tarda». Ed è molto preoccupato per il futuro. Il regolamento dei Sai prevede che il progetto duri sei mesi prorogabili. «Vogliamo essere aiutati ancora. Non ho soldi, tutto è rimasto in Afghanistan. Parlo ancora male italiano. Chiediamo una proroga del progetto, per studiare e trovare un lavoro». Sarà accolto il loro appello? È quasi certo. Intanto ripetono che «qui stiamo davvero bene». In fondo sono stati fortunati rispetto ad altri. Sanno bene come funziona ora la fuga dall'Afghanistan. «Otto ore a piedi per passare in Iran, poi in pullman o in auto fino in Turchia. Oppure 20 ore a piedi. Pagando tra 2.500 e 8mila euro. Poi la barca fino all’Italia». Quella che avevano preso i loro amici. Un sogno finito nel mare di Cutro.