Agorà

Mantova. Yannaras «La Grecia smetta di copiare l'Europa»

Alessandro Zaccuri martedì 15 settembre 2015
Christos Yannaras è un uomo mite, ma dalle idee molto chiare. «No, non direi che la salvezza ha un orizzonte comunitario – ribatte appena si inizia a parlare –. La parola giusta è ecclesiale, semmai». Ottant’anni compiuti da poco, pensatore tra i più autorevoli nel panorama della cultura greca contemporanea, domenica il teologo ortodosso era al Festivaletteratura di Mantova per un dibattito che prendeva spunto dal suo ultimo libro tradotto in Italia. Si tratta di La libertà dell’ethos (a cura di Basilio Petrà, Qiqajon, pagine 340, euro 27,00), un saggio la cui prima edizione risale al 1970 e che da allora l’autore ha più volte rivisto e ampliato. La tesi, in ogni caso, è rimasta immutata: di fronte alle crisi ricorrenti della cultura occidentale (quarant’anni fa era il Maggio francese, oggi è la tempesta finanziaria globale), è venuto il momento di riscoprire il messaggio di libertà di cui il cristianesimo è portatore e che, nel corso del tempo, è stato offuscato dal formalismo legalista. Il pregiudizio per cui la morale si riduce al rispetto di regole e norme, insomma, perdendo di vista l’obiettivo autentico della vita. «La vera esistenza è l’esistenza libera – precisa quietamente Yannaras –. L’errore dell’Occidente sta nel considerare la libertà come un traguardo individuale, ma non è così».Perché?«Perché la salvezza è per sua natura è evento ecclesiale. Questo spiega come mai non sia sufficiente parlare di comunità, né di amicizia. Qui non sono in questione i sentimenti, ma la promessa, che solo la Chiesa può garantire, di un’unità di vita proiettata in un futuro senza fine. Stiamo parlando di un tempo illimitato, di un’eternità che, se fosse costretta nei confini di una qualche necessità, assumerebbe i connotati dell’incubo. La Chiesa ci mette al riparo da questa angoscia, restituendoci alla pienezza dell’esistenza».In che modo?«Indicando nella Trinità il modello di ogni unità, di un’esistenza fondata unicamente sull’amore. Provo a sintetizzare in una formula: io vivo perché voglio esistere liberamente e voglio esistere liberamente perché amo. “Dio è amore” è la sola definizione positiva presente nei Vangeli. Nessun riferimento alla legge, l’attenzione è posta tutta sulla relazione che lega il Padre al Figlio nello Spirito. La differenza rispetto agli dèi dell’Olimpo non potrebbe essere più evidente. Zeus, Apollo e gli altri sono individui isolati, spesso in lotta tra loro. Nella Trinità c’è solo l’amore».Questo significa che non esistono è più limiti?«No, il limite esiste ed è dettato dall’esperienza. Ma non va confuso con la legge. Il dogma stesso, nella sua concezione originaria, non è un precetto, ma qualcosa che delimita il confine dell’esperienza. Un bambino che non abbia mai conosciuto la madre, per esempio, può avere una nozione teorica dell’amore materno, ma non lo conoscerà veramente fino a quando non incontrerà qualcuno che condivida con lui questa esperienza fondamentale».Sì, ma qual è allora il ruolo della Grazia?«La Grazia non è una specie di corrente elettrica spirituale: è la possibilità che la nostra natura umana si assunta nel Padre, permettendoci di conseguire l’adozione a figli. È la stessa dinamica dell’incarnazione del Figlio».Sono questi gli elementi sui quali, secondo lei, dovrebbe basarsi il dialogo ecumenico?«Per me l’ecumenismo non è una questione da affrontare con convegni o dichiarazioni di principio. Il dramma dei cristiani sta nell’aver ridotto la fede a una convinzione, trascurando del tutto la dimensione esistenziale, che coincide con l’affidamento all’amore trinitario. Posto che l’ecumenismo è uno strumento transitorio, legato alla situazione attuale dell’uomo, sono persuaso che il vero ecumenismo sia praticato dai monaci, dai mistici, dagli artisti».Lei parla nella prospettiva dell’ortodossia. Ma questa tradizione è ancora viva nella Grecia di oggi?«Resiste come resiste il piccolo gregge, attende di dare frutto come il granello di senapa. Negli ultimi due secoli la Grecia non ha fatto altro che tentare di adeguarsi all’Europa. O, per essere più precisi, all’idea efficienza economica europea propugnata anche di recente da alcuni Paesi dell’Unione. Per raggiungere questo scopo la Grecia ha cercato di sbarazzarsi in ogni modo delle caratteristiche che garantivano l’alterià e l’unicità della sua storia. Il risultato è che, in questo momento, non siamo greci, non siamo moderni e non siamo neppure europei. Viviamo in una società che scimmiotta ossessivamente qualcosa di estraneo, a partire dalle differenze di classe. Se la Grecia fosse rimasta fedele a se stessa, non ci sarebbe stato alcun bisogno di scomodare l’opposizione marxista fra capitale e proletariato, né di appellarsi alla distinzione politica fra destra e sinistra. Sono concetti che non hanno senso per la cultura ellenica, perché la Grecia è sempre stata un crocevia e mai un ghetto. Ormai però ci si è arresi all’imitazione del presunto modello europeo, che a sua volta è una brutta copia di quello americano».