Agorà

la recensione. William Saroyan e la vita da armeni nel sole californiano

ENRICO GRANDESSO giovedì 24 marzo 2016
Il teatro della vita di una comunità di emigrati armeni in una cittadina della provincia californiana, con le sue solitudini, le aspirazioni realizzate e quelle frustrate, con i suoi protagonisti a volte mitici altre volte strampalati visti dagli occhi di un ragazzo: è lo scenario dei quattordici racconti de Il mio nome è Aramdi William Saroyan (Fresno, 1908-81), usciti nel 1940 e oggi ripubblicati dall’editrice veronese Delmiglio. In una civiltà squadrata e iperproduttiva come quella statunitense, gli armeni emigrati nella “terra promessa” sono ritratti su un filo sottile teso tra i sogni degli adolescenti e le difficoltà di adattamento di adulti e anziani, raccontate con divertente e tenera ironia. Come nel personaggio dello zio Khosrove, che «perdeva la sua vita quando perdeva una partita, ma era inconcepibile per lui che qualcun altro potesse considerare il senso del gioco più profondamente di quanto facesse lui», o in quello dello zio Jorgi, dalle massime fulminanti: «Quando leggi in un libro di centinaia di pagine di caratteri minuscoli che una donna è davvero una creatura prodigiosa, quello scrittore ha voltato le spalle alla propria moglie e sta sognando. Lascialo andare». Saroyan include anche le tensioni di chi è emigrato da altri paesi e culture o di chi vi preesisteva, come Locomotiva 38, un indiano della tribù degli Ojibway. Questo giovane solitario, considerato povero e un po’ pazzo, è sceso in città sopra un asino malandato. Divenuto amico del giovane Aram, si rivela invece ricco e amante del bel vivere e acquista un’auto di lusso, chiedendogli di fargli da autista, perché «gli indiani sono nati con l’istinto per cavalcare, vogare, cacciare, pescare e nuotare. Gli americani sono nati con l’istinto di perdere tempo con le macchine». Come rileva nella postfazione il curatore del volume, Stefano Giorgianni, Il mio nome è Aram risente dell’influenza di Huckleberry Finn di Mark Twain, in quanto «entrambi gli autori dialogano con alcune delle più importanti questioni irrisolte dell’America, prima su tutte quella dell’identità». In una scrittura che combina tradizione, disillusione e un pizzico di incantata nostalgia. © RIPRODUZIONE RISERVATA William Saroyan IL MIO NOME È ARAM Delmiglio. Pagine 190. Euro 15,00