Agorà

Cinema. Wenders, la sofferenza che libera la vita

Alessandra De Luca mercoledì 11 febbraio 2015

​Colpa e perdono, malattia e guarigione, disperazione e rinascita. Sono questi i temi messi in campo dall’ultimo film di Wim Wenders, Every thing will be fine, presentato ieri fuori concorso al Festival di Berlino, che domani consegnerà al regista tedesco l’Orso d’Oro alla carriera. Tutto andrà bene, come suggerisce il titolo, il tormento dei personaggi finirà per sciogliersi come neve al sole, ma dovrà passare del tempo prima che i protagonisti di questo dramma riescano a dare un nuovo senso alla propria esistenza. Perché nella loro vita tutto cambia quando un giovane scrittore ancora in cerca del proprio posto nel mondo, Tomas (James Franco, al suo terzo film qui a Berlino), investe accidentalmente un bambino scivolato dal nulla su uno slittino lungo una strada buia e innevata del Canada. Quando scende dall’automobile l’uomo scopre che il piccolo è rimasto miracolosamente illeso, anche se in stato di choc, e lo riporta a casa, per poi scoprire con orrore che su quello slittino c’era anche un altro bambino, finito invece sotto le ruote. Una scena quasi terrorizzante, che fa correre i brividi lungo la schiena, filmata con forza e pudore al tempo stesso. Ma la colpa di Tomas non è quella di aver ucciso il bambino. Nemmeno la madre della piccola vittima (Charlotte Gainsbourg) lo accusa, è stata una disgrazia. Anzi, lo accoglie in casa, accetta di parlare con lui, lo rassicura, chiede aiuto pregando tra le panche di una chiesa. La colpa di cui si parla è quella che di tanto in tanto tocca scrittori, registi, attori: è giusto usare la vita degli altri, le esperienze di persone che conosciamo, la loro sofferenza per creare opere d’arte? Che tipo di responsabilità ha chi si impossessa di ciò che altri hanno vissuto trasformando la verità in una finzione? Negli anni che seguono l’incidente Tomas è diventato scrittore decisamente migliore, di grande successo. Il dolore sembra averlo messo in contatto con una parte più intima, profonda e vera di sé. Come dice il suo editore, spesso i drammi che colpiscono la nostra vita si trasformano paradossalmente in opportunità. «Ho voluto realizzare questo film – ha racconta Wenders ieri a Berlino, colpito dalla sceneggiatura del norvegese Bjørn Olaf Johannessen – perché mi interessava molto riflettere sull’importanza della malattia nella nostra vita. Dopo l’incidente, Tomas cade in una profonda depressione, mette in discussione la propria esistenza, abbandona un rapporto sentimentale insoddisfacente, tenta persino il suicidio. Ma continua a scrivere, trova un nuovo amore, diventa padre e scrive romanzi sempre più belli. Mi affascinava il percorso che conduce a confronto con i nostri fantasmi e alla guarigione, al perdono degli altri, ma soprattutto di se stessi. La creatività può curare le nostre ferite e salvarci». In realtà non tutti i temi che Wenders affronta arrivano forti e chiari allo spettatore. Vuoi per la scelta di mettere in scena emozioni trattenute, come raggelate anche dall’ambiente circostante (siamo in Québec e a Montréal), vuoi forse per l’interpretazione poco convincente di James Franco, troppo parco di espressioni facciali, non è sempre facile entrare nella pelle dei protagonisti, scoprire la loro anima tormentata, respirare il loro stesso dramma.

 

Ma Wenders cerca il tono del film a partire dai luoghi in cui gira e quei luoghi sembrano suggerire il distacco che avventiamo nel film, come a sottolineare che ci sono tanti modi per affrontare una tragedia, tra cui anche la razionalità. «Proprio perché i personaggi non esprimono in maniera troppo evidente i loro sentimenti – ha aggiunto il regista – la scelta del 3D, già sperimentato nel documentario Pina e usato questa volta in una dimensione così intima, è funzionale ad aggiungere spessore e profondità alle loro emozioni». «Ognuno dei personaggi che ho interpretato – ha evidenziato Franco – ha una storia diversa e un diverso sguardo sul mondo. Non amo dare qualcosa di me a loro, ma plasmarmi completamente sulla storia, aderire con la mia performance al tono e allo stile scelto dal regista, essere al suo completo servizio. E la visione che Wenders ha del mondo ha il grande dono della leggerezza».