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EYAL WEIZMAN. L'etica del minor male? Oggi la decide la politica

Alessandro Zaccuri sabato 18 maggio 2013
​Si chiama lawfare e riguarda il rapporto fra guerra e diritto. «Però non va confuso con il tentativo di giustificare giuridicamente un conflitto – avverte Eyal Weizman –. Qui è la legge stessa a diventare strumento di guerra, attraverso la strutturazione di regole che si sottraggono al vaglio dell’etica». Competente e appassionato, Weizman non è un giurista, ma un avvocato israeliano che vive e lavora a Londra, dove guida un importante progetto di «architettura forense». Altro termine innovativo, che nasconde una realtà inquietante: «A Gaza e in molte altre regioni del mondo – spiega – il maggior numero di vittime si trova dentro gli edifici. Si muore nelle case, colpiti da oggetti quotidiani che si trasformano in armi». La riflessione di Weizman sulla guerra e, in particolare, sui limiti che la comunità sembra aver accettato di superare è affidata alle pagine di un saggio denso e documentato, Il minore dei mali possibili (curato da Nicola Perugini per nottetempo, sarà presentato al Salone del Libro domani alle 14.30 presso la Sala Azzurra del Lingotto). Il minore dei mali non sarebbe una categoria filosofica?«Teologica. La secolarizzazione è caratterizzata da un continuo slittamento dalla teologia alla politica, per cui il minore dei mali è oggi la definizione stessa del male. Tolleriamo dosi di violenza perché ci siamo convinti che sia un linguaggio e che, in quanto tale, possa essere gestito. Ormai ragioniamo in termini economici anche quando misuriamo le vittime civili di un attacco militare».Ed è qui che entra in gioco il «lawfare»?«Certo. Si stabilisce una norma per i danni "accettabili" e poi ci si comporta di conseguenza. Ventinove vite umane possono essere considerate un sacrificio necessario, se questa è la soglia che ci siamo dati. La prima vittima è, nel caso, il trentesimo morto».Qui però dovrebbero intervenire i diritti umani, no?«Che purtroppo fanno parte del problema. Quali sono i requisiti dell’intervento umanitario? A quali compromessi possiamo piegarci per aiutare una popolazione in difficoltà? Abbiamo iniziato a farci queste domande negli anni Ottanta, all’epoca della carestia in Etiopia. In quel momento l’azione umanitaria era svolta principalmente da organizzazioni non governative. Nella fase attuale sono gli Stati stessi ad assumere il ruolo di operatori umanitari, la cui connotazione politica assume un’evidenza crescente».Nel libro si sofferma molto sulla situazione nella Striscia di Gaza…«Sì, ma non perché sono israeliano. Quella zona è il laboratorio di quanto accade nel mondo. Pensi alla controversia sul muro di divisione fra Israele e i Territori palestinesi. Qualsiasi paragone con la Cortina di Ferro è del tutto inappropriato. Il muro di Berlino era la linea stabilita da un regime totalitario: un segno netto, inconfondibile. A Gaza il muro definisce uno spazio che si espande in profondità, esattamente come succede nel Mediterraneo all’altezza di Lampedusa. Materiali o immateriali, le nuove frontiere intervengono sulla libertà di movimento delle popolazioni. Parlare di diritti umani è fuorviante: i diritti sono sempre politici».