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Inedito. Derek Walcott: «La poesia non è democratica»

Natasha Sajé - George Handley domenica 23 luglio 2017

Democrazia e poesia. Conversazioni con Derek Walcott, che esce in questi giorni in libreria per Medusa (pagine 96, euro 12), riunisce tre interviste inedite col premio Nobel caraibico. Walcott disegna una semplice, radicale, razionale teoria della formazione umana attraverso l’arte: la poesia (la pittura, il teatro...) devono essere per tutti, ma non sono cosa da tutti. Democratizzare la fruizione dell’arte è un dovere preciso dell’artista, mentre democratizzarne la produzione è il grande errore della società moderna, o il grande trucco che consente di confondere le voci forti, le voci di dissenso del poeta dentro il chiasso di innumerevoli voci che non esprimono alcuna qualità. Anticipiamo alcuni brani dal libro tratti dall’intervista con Natasha Sajé e George Handley del 2001.

Parte della diversificazione del curriculum nell’istruzione superiore americana ha portato all’enfasi sull’identità individuale dello scrittore: identità razziale, di classe, orientamento sessuale o genere. Qual è la sua opinione su questo fenomeno? È cosa buona per la letteratura?

«Penso che abbiate un grosso problema in termini di democrazia ed educazione, il che è esemplificato in questo paese. Da un lato, si desidera un sistema educativo più ampio ed egualitario possibile per i cittadini della repubblica. E questo è l’America: una repubblica. Dall’altro lato si ha il contrasto tra una formazione di base e il fatto che l’arte, o la pratica della letteratura, siano d’élite. Il conflitto sta nel fatto che non si può democratizzare il genio, non si può democratizzare il talento e dire che nella misura in cui qualcuno scrive, o ha il diritto di pensare, allora è automaticamente uguale al migliore di ogni letteratura. In altre parole, il diritto che ho di esprimermi non mi rende Shakespeare; non mi rende un grande scrittore. E non appena si inizia a definire “grande”, allora si entra in un territorio molto ostile di persone che dicono di tutti, per esempio: “non puoi essere un grande scrittore perché non sai niente delle donne – sei un uomo. Non sai niente dei bianchi, perché sei nero”, e così via. Queste sono le cose che derivano dai diritti di ogni gruppo di affermare se stesso in termini di scelta, ma la decisione finale non può essere presa da un paese. Non può essere presa da un sistema; viene presa dal tempo. E il tempo non democratizza; il tempo seleziona e dice che questo è ciò che è buono, e che questo sopravviverà, in modo tale che non si può aggirare. Oggi si può avere l’istruzione migliore possibile per tutti i cittadini della repubblica, ma poi si incontra il fatto che l’alto livello di istruzione è necessariamente d’élite: nel senso della scelta... viene lasciata fuori la spazzatura. E la crescita in tecnologia è anche una crescita in mediocrità perché l’idea della tecnologia è raggiungere il più persone possibile, ed essere il più possibile semplice nel raggiungere la massa. Sembra che faccia una distinzione pericolosa nel dividere la massa dall’élite. Ma ciò è quello che fanno i media: puntano alla massa. È vero per i film come per ogni altra forma di tecnologia. Ed è qui che avviene il conflitto tra una democrazia, una formazione d’élite e una letteratura d’élite. Con questo concetto intendo semplicemente il meglio. Intendo che anche se si possono considerare Dante o Shakespeare accessibili a tutti, la complessità di Shakespeare non può essere insegnata con la comunicazione di massa».

Cosa pensa del femminismo?

«Non presto attenzione a esso, perché qualsiasi cosa dici, verrai sicuramente aggredito. Dici: “mia madre non era una femminista”. Sì, lo era, perché ha combattuto con tutte le sue forze per avere lo stesso salario degli uomini. Allora dici: “Ok, allora la si può vedere come una femminista”. Ma io non la vedo così. La vedo come una vedova che ha cercato di mantenere un livello di vita decente per noi. Era un’eroina per me: ricordo le sue lotte. Allora quando qualcuno scopre di recente l’attacco alle donne, rispondo loro che avrebbero dovuto scoprirlo da tempo nell’esempio di mia madre. Ho avuto critiche recenti che sostengono: “Non ci sono donne nei drammi di Walcott!”. Perché? Perché le loro madri non permettevano alle figlie di recitare, ecco perché. “Mia madre non vuole che venga alle prove”. Ora chi è la femminista? La donna? O la ragazza che non può venire alle prove? Io non faccio distinzioni. Mi arrabbio quando sento fare distinzioni tra scrittori uomo e scrittori donna. Non voglio che Emily Dickinson sia una donna o che qualcuno mi dica che non posso apprezzarla perché sono un uomo. Nello stesso modo, non voglio che a nessuna donna sia detto che non può comprendere Milton. Penso che tutto questo sia parte di un’idea democratica dove la minoranza si fa sentire in modo eccessivo. Gli scrittori neri si sentono dire: “Non sei abbastanza nero, e non sei abbastanza donna, o non sei abbastanza questo o quello”. Ed è parte della mischia generata dalla richiesta democratica di uguaglianza. È politica, e io evito le soluzioni politiche in arte».

Lei ha suggerito che la grande arte è senza tempo, ma che ovviamente noi consideriamo i grandi cambiamenti tra le epoche. La nostra nozione di grande arte è diversa da quella dell’Ottocento. Come intende questa differenza?

«Sì, ma ci sono cose che sono invariabili, che rimangono. «I wish I were where Helen lies» [primo verso di una ballata popolare scozzese, ndr]. Questa piccola ballata è permanente, è immortale. E non si può fare un’antologia di ballate inglesi senza includerla. Lei ha ragione in termini di gusto. Per esempio, l’espressionismo astratto, che sembrava l’espressione ultima della pittura, alla fine è diventato più vecchio della pittura vittoriana. Ma ci sono cose permanenti. Un argomento contro la loro permanenza porterebbe a bandirle per qualche motivo. In questo abbiamo, credo, una peculiare immortalità ».

E cosa rende immortale un’opera? Cosa costituisce la grandezza lungo tutte le epoche? Quali sono le qualità che a suo parere consentono alla ballata di sopravvivere?

«Bisognerebbe fare attenzione ai particolari. Non penso che si possa essere generici nel dire che una grande poesia è la stessa cosa che una grande opera di pittura, perché si guarda a cose differenti. Non si può guardare Velázquez e dire semplicemente che Las Meniñas è una delle grandi opere della storia. Perché? Allora bisogna andare nel dettaglio e dire perché Velázquez è così grande. Alcuni pittori potrebbero dire che noi non pratichiamo più lo stile narrativo di Velázquez, ma credo che nessuno direbbe che Velázquez non è grande nella tecnica. Per quanto riguarda ciò che sopravvive, il tempo è il curatore che sceglie, il tempo è il museo che le ordina. Anche se all’inizio potrebbe sembrare che ci siano giudizi permanenti, apparentemente assoluti, emessi da persone apparentemente esperte, come i critici, le gallerie d’arte o i mercanti, ci sono cose che non possono essere alterate nel loro valore. Può servire molto tempo perché un artista venga riconosciuto. Ciò che è famoso può svanire facilmente. Le persone che vengono trascurate, o che non sono riconosciute, o che non sono neppure note nel loro tempo, alla fine trovano un livello in cui la loro grandezza diviene stupefacente per noi. Penso che sia vero di Emily Dickinson, per esempio, ed è vero di Gerard Manley Hopkins, e così via. Penso che sia bene credere che una grande opera d’arte alla fine trova il suo pubblico, anche se serve un secolo o due; è quasi una fede religiosa».