Agorà

Il caso. Wagner, in Germania duello (a distanza) fra direttori

Giacomo Gambassi venerdì 3 giugno 2016

Se nella Norimberga di oggi si disputasse una gara fra Kirill Petrenko e Christian Thielemann, chi sarebbe eletto “maestro cantore” wagneriano? Viene da chiederlo guardando a ciò che sta accadendo in questi giorni in Germania. I due direttori d’orchestra, considerati i massimi interpreti del genio romantico, si sono sfidati sulle note di Richard Wagner a distanza di 450 chilometri. Petrenko ha messo in scena al Bayerische Staatsoper di Monaco di Baviera – di cui è direttore – I maestri cantori di Norimberga. Thielemann ha proposto Lohengrin al Semperoper di Dresda con l’orchestra Staatskapelle che guida.

Entrambi si sono affidati a cast con nomi di spicco: il primo ha voluto Jonas Kaufmann che esordiva nel ruolo di Walther von Stolzing; il secondo ha scelto due “stelle” del melodramma che mai si erano cimentate in un titolo wagneriano: Anna Netrebko e Piotr Beczala (che sono stati Elsa e Lohengrin). Il responso? Meglio non immaginare vincitori e vinti. Perché le produzioni mostrano gli stili dei maestri: coraggiosi e sanguigni I maestri cantori; rigoroso e raffinato Lohengrin. Gli esiti sono lo specchio dell’approccio che le due bacchette hanno alle partiture di Wagner. Petrenko che dal 2018 guiderà i Berliner Philharmoniker rappresenta una generazione “giovane” che innova senza tradire. Thielemann è l’espressione della fedeltà che però non significa riproposizione del passato. E la sua storia lo dice: è direttore del teatro di Dresda – di cui il compositore tedesco è stato “timoniere” – e del Festival wagneriano di Bayreuth. Si può essere più vicini all’impostazione dell’uno o dell’altro. Avvincente è gustarsi le loro esecuzioni nelle rispettive differenze.

 

KIRILL PETRENKO: IL CORAGGIO VINCE SUL DEGRADO NEI “MAESTRI CANTORI” TALENT

Kirill Petrenko ha un leggero fastidio a salire sul palcoscenico e a essere subissato di applausi. Ha gli occhi socchiusi sotto i riflettori. Sembra che si senta a disagio mentre il pubblico del Bayerische Staatsoper di Monaco di Baviera è in piedi e lo elegge a trionfatore dei Maestri cantori di Norimberga in scena fino all’8 ottobre nella città dove l’opera di Richard Wagner venne rappresentata la prima volta nel 1868. Anche quando viene acclamato nella buca dell’orchestra, prima del secondo e del terzo atto, Petrenko si volta verso gli spettatori, ringrazia, ma subito alza la bacchetta per placare l’entusiasmo e attaccare con la musica.

La ritrosia di fronte agli encomi si trasforma in risolutezza sul podio mentre tesse un’interpretazione dei Maestri cantori che unisce vigore e leggerezza. Per il 44enne direttore d’origine russa, che dal 2018 sarà alla guida dei Berliner Philharmoniker, era un debutto: mai si era cimentato nell’unico titolo comico di Wagner eccetto che nel preludio (reso qui con vitalità e trasporto). Per la sua “prima” ha voluto – come direttore artistico del teatro – un cast di richiamo a cominciare da Jonas Kaufmann, il tenore bello e tenebroso più famoso di questi anni, che – pure lui – esordiva nel panni di Walther von Stolzing. E dire che neppure la popolarità di Kaufmann è riuscita a far passare in secondo piano Petrenko che va considerato l’astro di questa produzione grandiosa. Ogni battuta è calibrata con meticolosità. E, seppur abbia impostato l’orchestra con uno stile “gigante”, riesce nel gioco di non annegare mai le voci e anche di farla piccola rimanendo possente. L’inizio del terzo atto e il quintetto che precede la festa di san Giovanni sono le perle della serata.

L’impostazione di Petrenko va a tutto vantaggio dei cantanti. Kaufmann vince la sfida: il suo Walther è romantico, audace e impulsivo. Il pubblico lo premia. Come consacra l’Hans Sachs solitario e carismatico di Wolfgang Koch che comunque arriva alla fine un po’ stremato. Superlativo il David ilare di Benjamin Bruns e meravigliosa la Magdalene di Okka von der Damerau. Penetrante ma con qualche striatura metallica l’americana Sara Jakubiak nelle vesti di Eva. Christof Fischesser propone un Veit Pogner di singolare intensità e Markus Eiche un ottimo Sixtus Beckmesser. Spicca anche il Fritz Kothner del 77enne Eike Wilm Schulte.

Si ride in questi Maestri cantori. E giustamente perché Wagner si era affidato all’ironia per denunciare le norme che imprigionano l’arte (come la sua, fuori degli schemi del tempo). Però l’intento del 38enne regista David Bösch riesce a metà. Anche il pubblico si divide: applausi e fischi insieme. La sua Norimberga ha i tratti grigi dei condomini e delle piazze di un quartiere degradato: a un italiano richiamano Scampia; a un tedesco gli agglomerati dell’ex Germania Est. Il calzolaio (e maestro cantore) Sachs è un ambulante che vive e viaggia su un camper-negozio; Walther un autostoppista in t-shirt e “chiodo” con la chitarra in spalla; i maestri una combriccola di amici simile a un gruppo di pesca. Qualche idea è presa a prestito dal controverso ciclo dell’'Anello del Nibelungo di Bayreuth commissionato al regista Frank Castorf per il bicentenario wagneriano. Di positivo c’è che Bösch rimane fedele alle trovate del genio di Lipsia: dalla lavagna per segnare gli errori a Beckmesser impiegato municipale. Esilaranti alcuni passaggi: le regole spiegate dall’apprendista David si trasformano in un carrello di faldoni; la serenata di Beckmesser viene cantata su un sollevatore industriale che sale e scende; nella rissa della notte volano dalle finestre cuscini e libri. Però, quando si arriva alla gara finale, domina il caos sulla scena: sembra di essere in un talent show all’aperto con tanto di ring, pon pon, striscioni o urla che coprono la musica. E non mancano gli eccessi: Sachs è un alcolista; Beckmesser un utile idiota che si vestirà d’oro per conquistare Eva e si ucciderà. Davvero troppo anche per il pubblico tedesco avvezzo all’avanguardia.

 

CHRISTIAN THIELEMANN: QUEL “LOHENGRIN” LABORATORIO FRA FEDELTÀ E SPRAZZI DI VERDI

Elegante, rigoroso, vibrante. Sul podio del Semperoper di Dresda Christian Thielemann appare così mentre dirige Wagner o quando il pubblico lo acclama sul palcoscenico. Ed è così il suo Lohengrin che il maggiore teatro della Sassonia ha proposto per quattro serate. Thielemann è oggi la bacchetta più wagneriana che ci sia in Germania (e forse nel mondo). Non solo è il direttore della Staatskapelle, l’orchestra che il cantore di Sigfrido aveva guidato seppur fra non pochi contrasti, ma dal 2015 è stato nominato anche responsabile artistico del Festival di Bayreuth, carica senza precedenti nei 140 anni di storia della rassegna voluta dallo stesso Richard Wagner. Quindi che il 57enne direttore di Berlino rimandi a una sorta di purismo wagnerino è più che naturale. Ecco perché bisogna sentire le sue esecuzioni per assaporare le partiture dell’irrequieta penna tedesca con uno stile che unisce approccio romantico e forza teutonica.

Inserire, però, Thielemann nella categoria del “tradizionalista” è di gran lunga riduttivo. Ne è la riprova il Lohengrin di Dresda trasformato dall’ex assistente di Herbert von Karajan in un laboratorio. Perché il “timoniere” della Staatskapelle ha voluto per protagonisti due star debuttanti: Anna Netrebko nelle vesti di Elsa e Piotr Beczala come cavaliere del cigno. Mai la celebre soprano russa e il tenore polacco apprezzato nel mondo avevano interpretato una partitura wagneriana. C’è chi sostiene che Thielemann, in quanto legato agli eredi della famiglia Wagner – in particolare alla pronipote Katharina che l’ha voluto per dirigere il Festspiele –, sia alla ricerca dei futuri Lohengrin ed Elsa per la nuova produzione del 2018 a Bayreuth. E abbia voluto testare le voci di due “beniamini” al Semperoper.

Il risultato è un dramma sperimentale che tiene insieme fedeltà e innovazione e, al tempo stesso, fa abbracciare Wagner e Verdi. È espressione del “classico” l’allestimento proposto dal teatro, un must che risale al 1983 ed è stato ideato dalla regista Christine Mielitz la quale ambienta l’opera in una fine dell’Ottocento in cui si respira aria di guerra, fra sfarzi di corte e sedute militari che sussurrano un po’ di Grande dittatore e hanno persino un minimo tocco di sontuosità zeffirelliana. Non mancano i richiami religiosi (dallo stemma episcopale al vescovo che benedice i due sposi, come a evocare l’eco cristiana che traspare nei libretti di Wagner). Vero marchio di fabbrica è la direzione di Thielemann, icona di questo Lohengrin. Il suo è un approccio intenso, sensibile, equilibrato che raggiunge l’apice nel secondo atto, nell’inizio del terzo con il celebre coro nuziale e nelle battute finali. Esemplare il rapporto del maestro con l’orchestra a cui rende omaggio più volte e verso cui getta il bouquet di fiori che riceve al termine. Giustamente il pubblico lo incorona, un po’ come nel ducato di Brabante la folla acclama a protettore il cavaliere “senza nome”.

Il tocco nuovo è dato da Netrebko e Beczala. La Elsa “russa” è più un’eroina verdiana, una Giovanna D’Arco viene da dire, che una donna debole e in balìa degli eventi. Netrebko ha qualche imperfezione nella pronuncia, un’energia dirompente e un approccio vocale da melodramma italiano. Accade pertanto che nel confronto con l’impeccabile wagneriana Evelyn Herlitzius (nel terzo atto) esca vittoriosa – a differenza di ciò che succede nella trama – Ortrud. Ben dosato Beczala con una dizione diamantina che privilegia il legato e che viene osannato dagli spettatori insieme con “Donna Anna”. Se le loro interpretazioni vanno in porto in modo apprezzabile, lo si deve al talento di Thielemann che, anche a costo di qualche cedimento, crea un abito musicale a misura delle due stelle. Fa lo stesso con l’intero cast in cui spicca il coinvolgente Georg Zeppenfeld (re Heinrich). Inoltre la voce scura di Tomasz Konieczny ben si adatta a Telramund. Ovazioni alla fine. E la mente va alle parole che Cosima Wagner annotava nel suo diario: le opere del marito vanno «cantate in italiano ma declamate in tedesco». Ma sta proprio così la faccenda?