Agorà

Opera. Wagner. Crepuscolo a Bayreuth?

Giacomo Gambassi martedì 29 luglio 2014
Finisce la prima di Tannhäuser.  E si esce dal Festspielhaus pensando all’ultima giornata dell’Anello del Nibelungo e ponendosi una domanda appena fuori il teatro di Wagner sulla «collina verde»: siamo al crepuscolo degli dèi per Bayreuth? Già, perché segnali più funesti non potevano accompagnare l’apertura dell’edizione 2014 del Festival che ha voluto Wagner e che dal 1876 si tiene ogni estate in questo angolo della Baviera dove il genio irrequieto ha «trovato pace» e si è indebitato fino al collo per costruire un teatro a misura delle sue partiture. Dopo ventiquattro ore, mentre sfuma nella stessa sala l’ultima nota dell’Olandese volante, la certezza è un’altra: il mito di Bayreuth resiste. Eccome se resiste. Ci possono essere scosse che lo fanno vacillare, ma – come in un dramma di Wagner – c’è sempre qualcuno che lo redime. Stavolta tocca a Christian Thielemann che dal podio regala uno straordinario Olandese. È lui che guida lo spettacolo, porta l’orchestra a vette non facilmente raggiungibili e fa alzare dal golfo mistico un’energia musicale che al termine si trasformerà in venti minuti di applausi. Nel cast spiccano un Daland di traboccante intensità interpretato dal coreano Kwangchul Youn e il timoniere Benjamin Bruns. L’Erik di Tomislav Mužek ha ottimi tratti vocali anche se manca di potenza. L’Olandese è l’amato baritono Samuel Youn. E gioca in casa Ricarda Merbeth (Senta) che conquista il pubblico nonostante le incertezze della «ballata». Anche la regia del giovane Jan Philipp Gloger funziona e, benché abbia un piglio contemporaneo, supera le force caudine dei «pellegrini di Bayreuth». Piace l’idea di un Olandese semi-robot perso fra circuiti elettronici e flussi di denaro, della condanna dell’affarismo giocando su una fabbrica di ventilatori (perché il protagonista è «volante»?) o dell’amore fra l’Olandese e Senta che si sublima in una statua fra gli scatoloni dello stabilimento. E sembrano passati anni rispetto alla sera precedente, quella del 25 luglio che dà il via al Festival, segnata da preoccupanti scricchiolii. Il primo è l’assenza di Angela Markel. Per la Germania che considera la prima del Festspiele una festa dell’identità tedesca, il forfait della cancelliera appassionata d’opera che in dieci anni non è mai mancata suona come un campanello d’allarme. Ufficialmente ha rinunciato per «problemi di agenda »; ma sarebbe una velata protesta contro l’impresentabile allestimento di Tannhäuser affidato a Sebastian  Baumgarten e proposto fin dal 2011. Una critica indiretta anche alle pronipoti di Wagner, Eva e Katharina, direttrici del Festival e quindi responsabili delle frequenti produzioni che fanno arricciare il naso: quest’anno, fra le trenta rappresentazioni in cartellone, tornano in scena fino al 28 agosto anche il discusso Ring dell’enfant  terrible Frank Castorf e il Lohengrin fra i ratti. Ma la Merkel dovrà farsene una ragione: Katharina, amante del teatro sperimentale, ha appena firmato il contratto che la lega al Festival fino al 2020, mentre Eva lascerà l’incarico. Col risultato che Katharina firmerà il prossimo anno la regia di Tristano e Isotta (con la direzione di Thielemann), che ha già scelto lo «scandaloso» Jonathan Meese per il Parsifal del 2016 e che ha anche arruolato l’australiano Barrie Kosky per i Maestri cantori  del 2017.La rinuncia della cancelliera fa rimbalzare sui media tedeschi l’ipotesi che si cominci a fuggire da Bayreuth. La riprova alla vigilia? La disponibilità di qualche biglietto che sembra scalfire uno dei pilastri del mito: l’attesa di dieci anni per un posto. In realtà per la prima volta sono stati messi in vendita sul web i biglietti di alcuni turni del Festival andando oltre la prassi (che resta in vigore) delle richieste per scritto. Una strategia per rispondere anche alle contestazioni della Corte dei conti sulla poca trasparenza nell’assegnazione dei biglietti che, secondo un’indagine, solo per il 40% finiscono nelle mani di chi li domanda. «Ma gli acquisti online non sempre vanno a buon fine», spiegano dalla «collina verde» per giustificare l’invenduto.  E poi c’è quanto accade con Tannhäuser. Quando si entra nel teatro, il sipario è già alzato su un’industria di biogas. Cisterne, tubi, gru dovrebbero descrivere il travaglio del cavaliere cantore fra sensualità e misticismo. Provocazioni nelle intenzioni del regista che a fine spettacolo viene sommerso di fischi nonostante voglia sottolineare che «l’arte non si mercifica». Invece il suo è un allestimento incomprensibile. E con pesanti cadute di stile: dagli spermatozoi che si muovono sulla scena a una Madonna messa a nudo. Anche l’orchestra non è trascinante sotto la direzione di Axel Kober. Quando, poi, deve spuntare dal basso la gabbia che sarà il monte di Venere, il meccanismo si inceppa e il palcoscenico rimane bloccato. Rappresentazione interrotta. E fuori dal teatro i duemila spettatori che attendono un’ora prima che l’opera riprenda. Racconta il direttore dell’Archivio wagneriano, Sven Friedrich: «In 138 anni non è mai successo che la prima sia stata fermata ». Ne fanno le spese i cantanti che restano come scioccati. Torsten Kerl si rivela un Tannhäuser non brillante; l’Elisabeth di Camilla Nylund è altalenante; Michelle Breedt appare una Venere talora in difficoltà; vanno meglio Kwangchul Youn (il Langravio) e Markus Eiche (Wolfram).  Applausi alla fine: comunque non troppo convinti. Ma ancora aveva «da passà ’a nuttata» prima di arrivare al riscatto dell’Olandese.