Agorà

L’uomo messo a nudo. Se l’intellettuale «contro» si compiace di una umanità come disperante nulla

Davide Rondoni giovedì 26 gennaio 2012
​Un vecchio, malato, avvilito. E il figlio che con dedizione prova a riparare, a pulire, a tenere in ordine un salotto borghese bianco. La corporale malora in cui viene esibito e sì, offeso lui, l’uomo poiché ridotto a sola deiezione e tremito, sarebbero infine mimesi banale e parziale se su questo palco non ci fosse anche Quel volto. La sua presenza muta e pur eloquentissima d’opera d’arte dedicata al Dio incarnato rende interessante la pièce andata in scena ieri, povera del resto come tensione drammaturgica e vero scandalo. Un corpo nudo infermo incapace di trattenersi lo conosciamo tutti. Tutti sappiamo la sacra, sì sacra perché piena di sacrificio, fatica di riconoscere in un uomo che sta perdendo forza e connotati esteriori di dignità una ulteriore, invincibile dignità. Per compiere tale fatica, e non sempre riuscendoci, tutta la tenerezza e il rispetto si devono indurire e lottare contro lo sconforto delle apparenze. In solitudine questo è più difficile. Occorre non solo un cuore che si ferisca in vastità sconfinata, ma anche una ragione viva. C’era bisogno di questo spettacolo per ricordarcelo? Forse ricordato dev’essere a una parte del bel mondo intellettuale milanese accorso alla prima con un certo ringalluzzimento anticattolico ingiustificabile, difeso da celerini e proclami. Saggia André Ruth Shammah ha letto nelle polemiche la matrice politica e non religiosa. In sala ci sono molti cristiani, e nessuna istituzione cattolica ha lanciato gli anatemi che ad alcuni qui per sentirsi più vivi piacerebbe aver ricevuto. Del resto che l’uomo sia quasi un nulla, che possa rivoltarsi contro Dio lo dicono da millenni i salmi, i libri sacri, i grandi poeti, la liturgia, l’arte. Se un limite lo spettacolo in scena ce l’ha – oltre a non raggiungere lo scandalo e la forza provocante di Testori o di certe prove del Teatro della Valdoca – è appunto il limite di rappresentare poco e "male" l’uomo, non Gesù. Pur con lo sfregio realizzato in modo un po’ laccato ed estetizzante, il volto di Lui resta presenza problematica, a cui dire sì o no. Il Suo volto si pone sempre così, come narrato nei Vangeli e tale si ripropone nella nostra povera vita. Spettacolo cristiano, dunque? Più che una bestemmia a Dio o a Gesù, Castellucci offre una rappresentazione piatta dell’uomo. Perdita sconcia di forze del vecchio, dispendio di forze del figlio per curarlo. Nient’altro. Ma la vita non è solo tale nullificazione impotente. Siamo "quasi" nulla. Non solo perdita e difficoltà di amare. In certi momenti può apparire così. Ma sono proprio i momenti in cui si verifica, si certifica come lungo i normali, i salutari giorni si è guardato l’uomo e la vita. E qui sta la sincerità del regista: ci fa vedere come la cultura d’oggi - e a lui plaudente - vede normalmente l’uomo. Ci restituisce la vita e non Dio come "concetto" troppo semplice. A una vita ridotta a tale semplificazione Dio non serve, e dà fastidio. Ma noi non siamo solo sforzo e impotenza. In noi emergono le sfrangiature infinite della gratitudine, del desiderio, del senso del futuro, dell’eredità. E soprattutto le violente o tenuissime sorprese delle presenze, gli sperdimenti nell’alterità. Invece anche nel gesto iniziale di spegnere il televisore dove il vecchio guarda degli animali tutto vien serrato nella scena nel bianco salotto. Due solitudini impotenti. In questa chiusura il cuore - diventando ossessivo - se la prende con il volto di Antonello da Messina che grandioso, delicatissimo invito chiama ad aprire lo sguardo. A riaprire il problema: di cosa siamo fatti davvero?