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La mostra a Livorno. Vittore de Grubicy, la luce presa in una rete di colore puro

Maurizio Cecchetti venerdì 15 aprile 2022

Vittore de Grubicy, "Quando gli uccelletti vanno a dormire", 1891-1903

Il ritratto che ne lascia Adolfo Wildt offrendolo come erma di un veggente le cui orbite cave dicono quanto sfidasse l’invisibile dentro la scomposizione della luce, allontana molto l’immagine di uomo raffinato e gentile, ma sicuro di sé, che vediamo nelle fotografie. È una specie di Ermes trismegisto o un Leonardo quello che ci si presenta nel grande marmo che ritrae Vittore Grubicy de Dragon due anni dopo la sua scomparsa. Corrisponde all’occhio lungimirante con cui ha affrontato sia la diffusione del verbo pittorico che fa capo al “divisionismo”, e poi al simbolismo, sia la pratica stessa della pittura alla quale si dedicò tanto come artefice quanto come maestro capace di formare alcuni giovani tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e le prime avvisaglie delle avanguardie del Novecento.

Dopotutto, risulterebbe difficile pensare Boccioni o Carrà, il deflagrare dei colori alla luce elettrica, senza le ricerche di Grubicy de Dragon. La sua storia comincia a Milano e si chiude, settant’anni dopo, ancora a Milano, nel 1920, ma nel mezzo si dipana una vita ricchissima di esperienze, creatività, cultura letteraria, musica, commercio. E come spesso accade nei casi della vita, ora la storia sembra portarci altrove, a Livorno, ma accade perché Grubicy all’inizio del Novecento aveva conosciuto quello che divenne il suo allievo più fidato e che lui nominerà suo erede universale: Benvenuto Benvenuti, nativo della città toscana e seguace assai moderno della ricerca sulla scomposizione e sul potenziamento della luce attraverso la tessitura dei piccoli filamenti di colore. Benvenuti è forse il pittore che più gioca sulle possibilità delle trame di colore puro, portandolo oltre la tecnica divisionista e anticipando di qualche decennio qualche astrattista con inclinazioni informali.

È dunque Benvenuti il trait-d’union che ci porta a Livorno per la mostra che il Museo della Città dedica a Grubicy e la sua eredità di «intellettuale-artista» a un secolo dalla morte (anniversario che il Covid ha ritardato di due anni), a cura di Sergio Rebora e Aurora Scotti. Gli eredi Benvenuti, nel 2001 donarono alla Fondazione Livorno ben 30 dipinti e 80 disegni di Grubicy, e ora se ne colgono alcuni frutti.

È bene ricordare che la figura di Grubicy è piuttosto anomala nel panorama italiano, che non ha mai visto di buon occhio, soprattutto nel Novecento, la figura ibrida del critico-mercante-artista. Ma Vittore è il propulsore di un gruppo la cui base teorica viene dalla novità “scientifica” che influisce sulla sensibilità visiva e pittorica. Da non confondersi, il divisionismo, col puntinismo francese, che si muove in una direzione scientifica più attenta alla percezione dello spettro cromatico dentro un’aura neobizantina, così che se il divisionismo porta quasi “naturalmente” alla deflagrazione energetica del futurismo, il puntinismo – vedi Seurat – viceversa rievoca, come è stato notato, la forma-colore di Piero della Francesca. Due modi diversi, anche se vicini, di tendere alla mistica della luce.

Vittore era il primo figlio del barone ungherese Alberto Grubicy de Dragon e della nobile lodigiana Antonietta Mola. Il fratello, anche lui Alberto, nato un anno dopo, nel 1852, alla morte del padre nel 1870 si trovò a seguire Vittore che per conto di una galleria milanese si trasferì a Londra per occuparsi di mediazioni sul mercato dell’arte proponendo una linea italiana, cioè i pittori della Scapigliatura lombarda, su tutti Tranquillo Cremona e Daniele Ranzoni. Con la pratica i fratelli Grubicy nel 1876 acquisirono anche la Galleria milanese conducendola a gran ritmo e spendendo il valore aggiunto accumulato dalle conoscenze e dalla cultura di Vittore. Fino al 1888 quando organizzarono a Londra l’Italian exhibition.

Nel 1879 Vittore aveva conosciuto Segantini, amore a prima vista, stabile nel tempo anche se il pittore aveva un carattere difficile, un po’ ossessionato dalla propria grandezza e soggetto anche a crisi interiori. Inizialmente, Vittore gli diede anche ospitalità a casa sua. Segantini stava lavorando su quel segno filamentoso incarnando quella linea che Grubicy difenderà non soltanto facendosi talent scout come critico e come gallerista, ma abbracciando a sua volta una maniera del tutto particolare, che si distacca presto dalle sue iniziali sperimentazioni grafiche e come incisore. Se da un lato spinge Segantini ad allargare i suoi orizzonti alla pittura francese, Vittore viaggia in Europa, in Olanda per esempio, con soggiorni ripetuti fino alla metà degli anni Ottanta, ed è qui che capisce di dover fare pittura – anche, credo, vedendo suggestionato dai fiamminghi, da quel loro disegno che talvolta si fonde in grovigli: quanto avrà contato Rembrandt? E i vedutisti olandesi? Senza dimenticare che, nel 1902, dopo aver visto la Veduta di Delft, Vermeer diventerà per Proust il pittore superlativo di ogni emozione: la sua pittura e quella lenticolare dei suoi contemporanei aveva fatto del Seicento il secolo d’oro di una rappresentazione realistica della società, ma attraverso la mistica della luce.

Se Vittore coltiva, come fu la moda dell’epoca, la passione per il giapponismo (in mostra vari fogli di alcuni dei maggiori nomi di quella pittura), è difficile non sentire nei suoi paesaggi un’atmosfera dove le luci si ammorbidiscono e si amalgamo nell’impasto pittorico come negli olandesi, ma con una densità propriamente materica che costituisce la cifra pittorica di Grubicy più ancora forse del divisionismo di Previati e gli altri. Splendidi gli acquarelli e gli olii dedicati al porto o ai cieli nuvolosi di Anversa o ai canali dell’Aia. Bisogna andare avanti, dipingere coi propri mezzi: pur affascinato dalla pittura del passato Grubicy non può ignorare il progresso scientifico nella forma artificiale della luce, e nemmeno la dissolvenza atmosferica impressionista, ovvero le prime ricerche della fotografia e il décalage prospettico, con lo slittamento dei piani in osmosi luminosa e senza più contorni. I tramonti incendiati di rosso del 1896 ne danno prova. Ma lo stesso vale per la dissolvente veduta a pastello di Venezia o il delizioso e raffinatissimo paesaggio a olio con gli uccelletti che vanno a dormire, che sembra eseguire una partitura musicale.

Dalla fine degli anni Ottanta Vittore si separa dal fratello, anche per dissapori nella gestione, e si dedica soltanto alla pittura. La sua presenza è di stimolo anche a quel filone simbolista che da Previati arriva a Conconi e Trubetzkoy (fino a sfiorare Wildt). Sono quelli di fine secolo e di inizio nuovo, gli anni della sua affermazione alla Biennale di Venezia, all’estero, alla Biennale di Brera.

Sono anche anni dove la sua tenuta fisica cala. Nel 1911 incontra Toscanini col quale stabilisce una relazione molto intensa. Quando muore a Milano ha già dato tutte le indicazioni necessarie a Benvenuti, erede testamentario, e affidato a Toscanini (in mostra alcuni dipinti appartenuti al grande direttore) e a Tosi il compito di destinare una parte delle sue opere ad alcuni musei italiani (lasciando la sua collezione di arte contemporanea al Comune di Milano). La mostra che la Fondazione Livorno ha allestito con importanti prestiti e collaborazioni (dalla Galleria d’arte moderna di Milano al Mart di Rovereto, ma anche con prestiti privati), nasce proprio dalla presenza in città di Benvenuti e testimonia l’influenza che Grubicy ebbe anche su alcuni pittori livornesi, fra questi Adriano Baracchini. Ma ciò che Grubicy ci lascia è la sua azione totale, unica del genere in Italia nella modernità. E certo possiamo riconoscergli di aver operato onestamente per incarnare una visione nuova della pittura, senza farsi perno dell’azione, forse perché era cosciente che non ci si salva e non ci si afferma da soli, ma soltanto avanzando insieme.

Livorno, Museo della Città
Vittore Grubicy de Dragon
Fino al 10 luglio