Agorà

Visioni italiane. L’«irredimibile» Scianna

Giuseppe Matarazzo lunedì 3 agosto 2015
«Catanzaro è una brutta città di una Calabria misteriosa. Obiettivamente nessuno la annovera fra le bellezze italiane. Ma a Catanzaro si organizza una iniziativa molto interessante. C’è un gruppo di professori, presidi e uomini di cultura che promuove “Gutenberg”, un festival di libri, con un taglio inedito, legato alla scuola. Si scelgono dei libri che ritengono interessanti, si fanno leggere e studiare ai ragazzi. E poi ci si confronta con gli autori. Sono ragazzi competenti, preparati, bravi. Ecco, cosa faranno questi ragazzi dopo la scuola? Probabilmente andranno via dalla Calabria. A portare la loro energia, il loro sole e l’apertura mentale altrove. E quando la Calabria si riprenderà i suoi ragazzi? Questo è un territorio straordinario di indagine. Il capitale umano. I fenomeni che riguardano l’uomo e i territori. Capire perché in Calabria non avviene quello che in Puglia e in Sicilia è avvenuto per esempio con il vino. Perché la ricetta del Nord-Est non funziona al Sud?». Ferdinando Scianna, il più internazionale dei grandi maestri della fotografia italiana, offre la sua visione contemporanea. A 72 anni ha l’energia e lo spirito di un ragazzino. Il suo campo d’indagine è generazionale e rimanda ai suoi inizi. Dalla diaspora di Bagheria all’approdo al bar Jamaica nella Milano degli anni Settanta, cuore pulsante della creatività italiana, dove si incontravano intellettuali, artisti, architetti. Tutti con la voglia di osare, inseguire il sogno. E provarci. Per lui fu un trampolino di lancio per Parigi, per entrare nella corte di Henri Cartier-Bresson e nella mitica agenzia Magnum, aprirsi ai grandi reportage per il mondo, spaziare dalla memoria della sua terra fino alla moda di Dolce&Gabbana, raccontata con uno stile nuovo e attraverso gli occhi meravigliosi della modella Marpessa che ti accolgono, in uno famoso scatto, appena si entra nel suo studio, a pochi passi dall’Arena Civica. «C’è oggi un bar Jamaica?», incalza Scianna. «C’è un luogo che raccoglie il fermento e la creatività dei giovani di oggi? I tanti happy hour della nuova Milano cosa “rilasciano”? È la stessa cosa? Dovremmo cominciare a fotografare questi giovani, raccontare cosa hanno in testa, dove vogliono andare. Bisognerebbe guardarli in faccia.

Perché prima o poi qualcosa faranno. Bene, male, non lo so. Ma il futuro sono loro. L’Italia di domani sarà quella che costruiranno queste facce al bar. E questa visione dobbiamo raccontare. Se avessi vent’anni di meno, partirei da qui. Purtroppo non ho più le gambe per avventurarmi in questi percorsi». Dovrebbe toccare alle nuove generazioni di fotografi. Ai nuovi “cronisti” della realtà. «La mia generazione ha raccontato la fine di un’epoca, la fine del mondo contadino. Una roba durata secoli che è scomparsa in vent’anni. Non lo sapevamo, ma la fotografavamo con l’intuito che quel mondo stesse scomparendo. I fotografi di oggi non so cosa facciano. La fotografia una volta era umile e mirava a restare con i piedi per terra e in mezzo alla gente. Poi è stata divinizzata. Così i fotografi non vogliono più raccontare la realtà, guardare in faccia il mondo in cui vivono. Vogliono fare gli artisti. Ed è tempo perso».

Per Scianna la fotografia è «uno strumento, non un fine». La fotografia – ama dire – «mostra, non dimostra». Il fotografo «non fa la foto, la riceve». Ma in una società dell’immagine, digitale, in cui – smartphone alla mano – siamo tutti fotografi, cosa succede? «Che nessuno guarda più la Gioconda, ma ci si fotografa con la Gioconda. Con il paradosso che la fotografia sta morendo per eccesso di successo. La fotografia era, è un ponte fra noi e la realtà. Per fissare l’istante. Oggi è un muro (di immagini) che paradossalmente non ci fa più vedere il mondo. Sommersi da milioni di foto, abbiamo perso la memoria. Non esistono più gli album di famiglia. Abbiamo milioni di foto che non verranno stampate e non si sa dove andranno a finire». Rischiamo di «non raccontare quelli che siamo a quelli che verranno». La memoria, invece, è «quella che ci fa leggere che l’Italia è un Paese che è cresciuto, che sta meglio, dove non c’è più la miseria, che eravamo noi a morire a Marcinelle, mentre adesso accogliamo barconi di disperati dal Mediterraneo. Quale Italia stiamo raccontando allora oggi? E in quali luoghi ci confrontiamo?».

Torniamo ai caffè che non esistono più, anche al Sud. Anche nei paesi più interni. Anche a Bagheria: non c’è più il suo Bar Aurora, lo stesso dove si ritrovava Renato Guttuso secondo cui lì si prendeva il «miglior caffè del mondo». Ma anche i cannoli, le cassate, le “sfince di San Giuseppe”. Caffè e cibo. E sempre memoria. Scianna ha dedicato un intero libro al cibo – «Ti mangio con gli occhi» (Contrasto, pagine 240, euro 22,00). Un libro di cucina, ma senza ricette. «Un libro sul mangiare e sul ruolo fondamentale che il cibo ha avuto e ha nella memoria, non solo mia. Perché i sapori evocano memoria. Se vai a Little Italy fanno cannoli imbalsamati ma pensano di farli come in Sicilia. Mi fa sorridere ancora se penso che la madre di Martin Scorsese, nata in America, andava a prendere il pane in una panettiera originaria di Polizzi (anche lei nata a New York e mai andata in Sicilia) “perché fa il pane come da noi”».

La Sicilia. Questa terra di «amore e odio». «Avrei voluto dimenticarla. Ma lei non si fa dimenticare. Me ne sono andato a 22 anni, non ero bambino, i giochi erano fatti. Ho vissuto l’entusiasmo e l’orrore. La mafia dalla mie parti non era una parola astratta. Un disgraziato tornato dalla Svizzera prese a mezzadria con un amico un campo di limoneto: al momento del raccolto, gli venne consigliato di lasciarlo prendere ad altri. Lui invece raccolse i frutti del suo lavoro. L’hanno fatto fuori con un colpo di lupara. Il mandante era uno che conoscevano tutti a Bagheria. Per quattro mesi lo hanno cercato invano. Poi, quando le acque si sono calmate, è tornato. Si è seduto davanti al circolo dei cacciatori e mezzo paese ha sfilato a baciargli la mano. La mafia per me è quella scena. Io l’ho vista e non posso dimenticarla. Albert Camus nel suo rapporto con l’Algeria mi ha insegnato che non c’è soltanto ingiustizia e dolore e violenza, ma c’è anche l’affetto della madre e degli amici, il sole e il mare. Eppure non c’è soltanto il sole e il mare, l’affetto della madre e degli amici, ma anche ingiustizia e dolore e violenza. E questo possiamo dire anche di noi siciliani». La sua voce emana ancora un vibrato di emozione, di dolore, di rabbia. «Irredimibile», direbbe Sciascia. «Un termine forte che lui spiegava così – ricorda Scianna, che di Sciascia fu grande amico –: “Quando si parla di futuro non ne parliamo in maniera metafisica: io posso arrivare a mio nipote; al figlio di mio nipote; e da qui ad allora non vedo soluzioni. Per questo è irredimibile”». Difficile dargli torto. «Non ci tornerò neanche morto, dicevo. Poi però ho comprato una casa a Siracusa, a Ortigia – ammette Scianna –. A Bagheria prevalgono i rancori, anche se ci abitano mia mamma e mia sorella. A Siracusa coltivo l’illusione della diversità: non c’è il famoso circolo dei cacciatori e faccio finta che si sta bene». Sul Sud e i siciliani Scianna sfodera un altro aneddoto: «Una volta andai a fotografare Indro Montanelli. Che era un tipo straordinario. Gli rimproverai una cosa: quando parla degli italiani, specialmente del Sud, ne parla in maniera antropologica, quasi razziale: “Sono così”. Lei che è anche storico – gli rimbalzai – dovrebbe sapere che così sono diventati, è la storia che li ha fatti così. Quindi se sono diventati così possono smettere di essere così. E lui: “Lei ha ragione. Ma sono così da così tanto tempo che è diventata natura!”». Altro modo di dire “irredimibili”. E “irriducibili”. Fino alla morte. Un sentimento che nessuno ha come un siciliano. «Non si può parlare della vita senza pensare alla morte. La morte non è un pensiero. È il pensiero. Si comincia a pensare a partire dalla morte. Ignazio Buttitta diceva: “Se non ci fosse la morte, io non avrei novant’anni”. Che è una meravigliosa definizione della vita».