Agorà

Parigi. Velázquez sulla linea d’ombra

Maurizio Cecchetti venerdì 17 aprile 2015
​È una mostra, quella che il Grand Palais dedica a Velázquez, che nasce, per così dire, da un complesso di colpa. E come accade spesso ai francesi, quando vogliono pagare un debito, da bravi giocatori di poker, finisce che rilanciano la posta. Il debito consiste nel fatto – forse clamoroso, ma neanche troppo – che, a tutt’oggi, quella che il Grand Palais gli dedica è la prima esposizione monografica che Parigi abbia mai realizzato sul pittore spagnolo. Il rilancio consiste nell’aver concepito una mostra che rappresenta una messa a punto della ricerca storica sul pittore.Si possono, naturalmente, evocare fantasmi storici, che datano già al secolo di Velázquez quando Francia e Spagna si contendevano una supremazia politica sull’Europa, soprattutto nel versante centrale e mediterraneo, e in questa ristretta geopolitica l’Italia giocava un peso non da poco (Filippo IV d’Asburgo spedì il pittore in Italia non solo come cacciatore di opere d’arte, ma anche come agente segreto e l’abito da spia indossato sotto quello dell’artista non fu all’epoca una prerogativa del solo Velázquez). La geopolitica può aver giocato un ruolo nella scarsa rappresentanza di opere del pittore spagnolo presenti in Francia almeno fino alla prima metà dell’Ottocento. Bisogna aggiungere che il pittore fu il dominus artistico della corte di Felipe IV – mi piace nominarlo alla spagnola, perché l’animo di questo sovrano, che pure è noto anche come Filippo il Grande, sembra identificarsi con un tratto gentile nei dipinti di Velázquez, fu infatti un vero amante dell’arte e della cultura –, che sedette sul trono quarant’anni, e venne ritratto dal pittore una quarantina di volte, fin dalla giovane età, quando ereditò dal padre, Felipe III, lo scettro di Spagna con una totale inesperienza umana e politica. A renderlo adatto al ruolo pensò Gaspar de Guzmán, duca d’Olivares,il consigliere voluto da Felipe che per molto tempo fu deus ex machina del governo spagnolo e, come scrive in apertura di catalogo della mostra lo storico americano Jonathan Brown, uno dei maggiori studiosi di Velázquez, la gloria maggiore di Felipe IV oggi sembra essere soprattutto quella di aver creduto in Velázquez e in Rubens; su Felipe pesa, infatti, l’accusa di essere stato un fragile individualista, che non seppe condurre da uomo politico quelle riforme che avrebbero permesso alla Spagna di contare ancora a lungo sullo scacchiere europeo, così che il suo regno vide la massima espansione del dominio spagnolo ma anche l’inizio di un declino storico. E Velázquez sembra aver pagato, almeno in Francia, i postumi di questa parabola storica.Come spiega il curatore dell’esposizione, Guillaume Kientz, la fortuna critica di Velázquez è abbastanza recente; cresce negli ultimi cinquant’anni, se si eccettua la pubblicistica spagnola (si pensi a Unamuno, alla Zambrano, e soprattutto a Ortega y Gasset e Gómez de la Serna che concordano sul fatto che Velázquez fu il primo pittore a rompere radicalmente con la tradizione manierista esprimendo un’arte realista che consiste nel non voler che le cose siano altro da quello che sono, ovvero, come scrisse Gómez de la Serna nel 1943, quella di Velázquez fu una interpretazione della natura senza intermediazioni e deformazioni alcune, che raggiunge l’evidenza, vale a dire l’immanenza delle cose).Onestamente, e forse scartando soltanto di poco dalla medesima linea storica che, fino a ieri, aveva trascurato Velázquez, la mostra ordinata da Kientz non idolatra il pittore spagnolo, ma vuole, appunto, «fare il punto sullo stato della ricerca e delle nuove attribuzioni». Mostra seria, dunque, ma non seriosa. Il pubblico risponde a frotte, è quasi impossibile vedere i quadri senza che qualcuno ti sgomiti accanto, coi soliti che ormai, anche in Francia, vanno alle mostre non per vedere le opere ma per scattare una foto col cellulare; il richiamo per i parigini, insomma, è forte, e colma quella mancanza di cui dicevo all’inizio. Paga pegno facendo l’inchino al «monstruo de naturaleza», come Carducho definì Caravaggio (applicando al Merisi il giudizio di Cervantes su Lope de Vega); espressione che per Velázquez è tanto più giusta, perché quella naturalezza sta proprio nella sostanza del pennello, nel modo in cui trasforma la realtà facendola scivolare sotto la pittura e dandoci l’impressione che sia tutt’altra cosa dalla vita che conosciamo; che sia più viva, più vera, più eterna: in mezzo a opere viste e conosciute, a fare la differenza bastano due piccole tele di studio che ritraggono l’infanta Maria-Teresa e Innocenzo X, entrambe conservati in America, al Metropolitan di New York la prima, alla National Gallery di Washington il secondo; sono i testimoni del patto faustiano che Velázquez aveva sottoscritto con la sua arte. Si potrebbe dire anche che l’immanenza cercata dall’artista sia del tutto interna alla pittura, e che la fedeltà alle cose di cui parlavano Ortega e Gómez de la Serna, consista nell’anticipazione di un realismo su cui s’incamminerà Manet, con evidente funzione polemica verso Courbet: da un realismo d’imitazione della natura a un realismo della pittura. E questo è un passo oltre la stessa «pittura di realtà» cara agli studi di Longhi e Testori. Perché, in un certo senso, oltre Caravaggio c’è solo Velázquez, sebbene avrebbe potuto esserci Serodine, col suo frantumare la luce nella materia stessa della pittura, ma tendendosi fino al punto di rottura, Serodine entra in una sorta di vicolo cieco; forse l’unico modo di andare avanti era retrocedere, rinsaldare la pittura nella propria seduzione vitale, che è anche la pena eterna scontata da Velázquez, uno che non dà l’impressione di essere felice, che sembra non credere a niente, non per astio ma perché il temperamento melanconico ed esistenziale che plasma il suo cuore di uomo nato sotto gli influssi del demone meridiano, è un’indole che culmina nello scetticismo.La vita di Velázquez fu segnata da lutti che non lasciarono il suo corpo indenne: perse entrambe le figlie, una ancora bambina, l’altra neppure quarantenne e moglie del pittore Juan Bautista Martínez del Mazo, del quale la mostra espone un certo numero di opere pregevoli, ma che non s’avvicina mai al segreto alchemico o, per così dire, alla dynamis del colore di cui fu capace il maestro. Lo prova la sua replica stentata di Las meniñas, esposta al Grand Palais, dove ogni dettaglio risulta caricaturale rispetto alla prodigiosa visione di quella macchina della pittura che è il quadro del Prado; opera irrinunciabile, vertice assoluto nella millenaria storia della pittura, la cui forza vitale è tenuta in pugno da Velázquez con una impressionante complessità di visione e di pensiero. L’artefice che si autoritrae nondimeno si trincera nell’enigmatica architettura dei piani prospettici, nel rebus dell’immagine (chi sta dipingendo? i sovrani riflessi nello specchio sullo sfondo mentre l’infanta, le damigelle, i nani, gli animali irrompono sulla scena a distrarre il pittore? e questa distrazione, che senso può avere nella concezione del quadro?). Quel teatro dell’arte rivisto attraverso la copia di Mazo, consente di toccare con gli occhi la differenza assoluta tra una rappresentazione e la realtà della pittura, vale a dire l’essenza stessa del dipingere.Parigi, Grand PalaisVelázquezFino al 13 luglio