Agorà

Il personaggio. Vecchioni, l'infinito è nelle canzoni

Massimiliano Castellani domenica 7 novembre 2021

Una foto storica anni ’70: Dalla, Guccini e Vecchioni all’osteria “da Vito” a Bologna

Il Professore è tornato sul palco. È sceso dalla cattedra – che in quarant’anni di onorata carriera nei licei è sempre stata ad altezza allievo – dell’ateneo di Pavia e prima da quella di Torino, dove solo per lui si erano inventati il corso “Forme di poesia per musica”, per spiegarci il fascino discreto delle sue Canzoni. Si intitola così, Canzoni (Bompiani. Pagine 355. Euro 18,00) anche l’autoantologia biografica, scritta con la complicità didattica del professore di Semiotica, a Pavia, Paolo Jachia e al suo chitarrista e compositore Massimo Germini che è anche il “massimo” esegeta della musica del cantautore milanese, classe 1943.

Premessa indispensabile del professor Vecchioni: «La forma canzone è un immenso diario della condizione umana del tempo». Perciò per questo suo viaggio al centro della musica si parte dalla «lirica» e quindi dalla poesia greca che era tutta suonata e già suddivisa in due generi: quello elegiaco di Saffo e Alceo, tendente al malinconico, e l’altro, quello più brioso, di fatto progenitore del “rap”, la cui paternità secondo il prof. Vecchioni spetterebbe a Archiloco e Ippo- natte ( VII e VI secolo a.C).

Per viaggiare sulle strade della contemporaneità è bene sapere dalla sua viva voce, trascritta in Canzoni, che i due grandi “rivoluzionari” della musica d’autore, sono stati Mogol e Francesco De Gregori. «Mogol è il principe di quel genere che è chiamato “mediale”, perché vuole arrivare a tutti con una scrittura semplice ma alta e avere il dono di far comprendere a chi è abitualmente disattento l’originalità di certe storie (penso a I giardini di marzo, Motocicletta, 29 settembre) ». Invece, per Vecchioni, Francesco De Gregori è il depositario del «“transmediale”, bisogna andare oltre l’apparenza, il figurativo, bisogna leggere sotto. De Gregori percorre un filo ideale partendo da Rimbaud e Baudelaire, congiunge dadaisti, futuristi, surrealisti adattandoli alla forma canzone, cioè riduce la “metafora” a sorpresa, a indizio, a contesto, che evoca e che noi “sentiamo”».

Tra questi due solchi è stato seminato tutto il meglio e il peggio della canzone, la quale conosce un unico confine: quello tra «verità e artificio». Una lezione che prima di trasmettere all’auditorio studentesco, Vecchioni ha fatto sua, grazie a un talento che gli ha permesso in questo mezzo secolo di musica e parole di usare l’artificio per arrivare alla più grande delle verità di un mestiere che è poi la sua donna – come canta ne La mia ragazza.

«La canzone non deve essere un capolavoro, non ha di queste esagerate ambizioni... La canzone vuole essere umanità, il più delle volte si limita a spargere fiori: non è la quercia, è il mandorlo». La pianta che fiorisce per prima e anche l’ultima a dare i frutti. Nel campo di mandorli di Vecchioni la prima canzone sbocciò e diede i suoi primi frutti esattamente cinquant’anni fa: Luci a San Siro è del 1971. Gli ultimi mandorli sono innestati nell’album del 2018 L’infinito che questa sera tornerà a far ascoltare al Teatro degli Arcimboldi di Milano.

E al di là di qualsiasi tesi filologica e di ricerca melodica-musicale, tra il primo e l’ultimo disco le canzoni hanno riempito la vita del Professore che confessa: «Non c’è stato un attimo, un giorno, un incontro, un addio, un amore, un uomo o una donna che io non abbia pensato in canzone». In questo lungo cammino, attraversando continenti, guadando fiumi popolati di Ippopotamie imponendosi da protagonista nell’intronata routine del cantar leggero, si è concesso persino l’approdo nell’incompresa, ai tempi, Samarcanda («la presero per Furia cavallo del West », ha confessato di recente Vecchioni a Luca Valtorta). Il Professore, per noi che lo seguiamo da tanto, è dunque il “terzo rivoluzionario”, con Mogol e De Gregori.

È il cantore “mitologico” e lo conferma lui stesso quando dice «il mito è l’espediente formale che ho sempre scelto per i temi più alti. Il mito è cosa seria, è l’inizio e la fine di tutto». Quando la canzone di Vecchioni non è mitologica, allora si incanala sui rivoli del brano scenico. Una «canzone scenica e teatrale» è L’ultimo spettacolo ma lo sono anche perle come Milady o Le lettere d’amore, in cui si staglia il mito di Pessoa e «la pioggia obliqua di Lisbona».

Mitologico e amico di tutti i poeti e i visionari alla Borges, questa è la cifra originale di Vecchioni che ha cominciato scrivendo canzoni alla Dr Jekyll e Mr Hide: autore per gli altri costretto a fronteggiare la concorrenza dei «giganti del testo», alias i “parolieri” (accezione che Mogol aborre): «Testa, Calabrese, Pace, Salerno, Minellonio, per non parlare di Mogol». Il Professore si è formato nel vivaio del cabaret milanese, ma non era nella prima squadra del Derby, bensì militava nella compagnia di giro che si esibiva nei locali – dalla Bullona al Refettorio – specchio reale di quella Milano meno verticale, ancora tutta trani e scighera.

Quelle sale fumose e i loro palchi che condivideva con gli istrionici teatranti – Paolo Poli, Paola Borboni, i Gufi e «quel grandissimo surrealista di Maurizio Micheli» – erano la sua seconda casa, «prima di incontrare il Club Tenco ». Lì sono passati tutti i cantautori, ma per Vecchioni il Club Tenco è sinonimo di Francesco Guccini. L’amico di notti ubriache di sogni e trovate, nel suo rifugio appenninico di Pàvana o ancora meglio nel cuore di Bologna, all’osteria delle Dame, dove all’allegra brigata si univa anche il genio, altrettanto rivoluzionario, di Lucio Dalla. Guccini vero alter ego mitologico di Vecchioni («Io so il greco e lui invece traduce Plauto in pàvanese ») ha addolcito il veleno dell’attacco critico di Riccardo Bertoncelli che, all’accusa di qualunquismo e di coerenza d’artista, poi si beccò in risposta quel ceffone de L’avvelenata.

Il tempo ha reso giustizia anche a Canzone per Francesco in cui le licenze poetiche del Professore (una ragazza greca al posto di una neozelandese) vanno nell’unica direzione: quella dell’amicizia eterna, che è pari solo all’amore per una donna. «Ragazza noi siamo bugie del tempo. Appesi come foglie al vento di Mistral. Non eri ancora nata e già ti avevo dentro. Come stanotte in questa casa di Alcazar», canta Vecchioni in Per amore solo per amore, e qui il “mitologico” incrocia le rotte mistiche, tra gesuiti ed euclidei, di un altro aedo da rivoluzione, Franco Battiato.

Anche Battiato come Vecchioni ha inteso la canzone come «riflesso dell’anima». Un bene unico e prezioso da preservare perché il Professore ci ricorda che «la canzone non sopporta l’insulto del tempo: il tempo lo ferma, non imbianca i capelli... resta lì immobile a dirti come sei, chi sei, chi sarai, sempre». Alla fine del viaggio nella poetica di Vecchioni si comprende che l’infinito di Dio, quaggiù è nelle canzoni, specie ne La canzone del perdono: «Perché non c’è niente nella vita di un uomo. Niente di così grande come il perdono. Niente così infinito come un perdono».