Agorà

Letteratura. I taccuini di Valentino Zeichen: il mondo visto dalla baracca del poeta

Massimo Onofri martedì 31 luglio 2018

Valentino Zeichen (1938-2016)

A un certo punto della vita, senza per nulla modificare la sua mondanissima vita sociale, il poeta Valentino Zeichen – fiumano d’origine, ma morto a Roma nel 2016 a 78 anni – si risolvette a vivere in una baracca nei pressi di Piazzale Flaminio, divenuta presto leggendaria non solo tra i letterati d’Italia: rifiutando di trasferirsi in una casa normale, tutte le volte che un premuroso amico – ne aveva tanti – glielo proponeva.

Nessun lavoro, se non qualche impegno intellettuale saltuario, come una collaborazione giornalistica o un radiodramma per la Rai: in ossequio a una disposizione da rigoroso ed elegante flâneur. È lui stesso, del resto, a scriverlo: «Non basta mai il tempo / per non fare niente». Affidandoci anche la sua idea di solitudine, perseguita per altro con ostinazione e assoluta coerenza: »Sono perfettamente solo / perfetta è la mia solitudine / perfezionata col tempo».

Zeichen viveva, insomma, soprattutto di inviti quasi quotidiani a pranzo e cena, che annotava con scrupolo di contabile, quando – e non avveniva di rado – non era lui a cucinare per tutti (sono stato pure io, in qualche trasferta romana, tra i privilegiati ospiti) nel suo casotto, sempre ordinato e pulitissimo, ricoperto di eternit: né mancavano generosi mecenate, soprattutto signore della buona società che amava frequentare, che si occupavano di lui con assegni e regalie varie.

Sulla qualità dei cibi in effetti non transigeva, arrivando persino a ironizzare sul fatto che la sua fama di poeta fosse ormai oscurata, se non obnubilata, da quella di cuoco. Sentite qua, su una questione – diceva – «non indegna di quelle filosofiche»: «Ma perché le crostate sono cattive?». E più avanti: «Stasera mi sono avvicinato alla soluzione del problema. La marmellata delle crostate ha un unico sapore, è lucida come se fosse irrorata di uno spray che deborda nella pasta frolla, lasciando in bocca un abominevole retrogusto di cosmetico».

Accanto alla passione per la cucina c’è quella, calcistica, per la Lazio, e l’altra, per l’ingegneria militare, non senza quel gusto implacabile – una specie d’ossessione – per la buona sartoria: «Devo ritenermi un uomo fortunato, avendo trovato un pantalone della mia taglia a prezzo scontato». E poi: «Ma non solo: la marca, il modello, il colore sono quelli da me ricercati».

Ambiti, questi, solo apparentemente di secondaria importanza, nei quali Zeichen procedeva con quel tipico modo argomentativo che ne hanno fatto, sin dagli esordi di Area di rigore (1974), il principale poeta gnomico della sua generazione, di vocazione soprattutto satirica (Neomarziale significativamente s’intitola un suo libro di versi del 2006). Ne era consapevole lui stesso, prima di tutti gli altri, in questa precisa, seppure rapidissima, autodefinizione: «Da poeta epigrammista quale sono, credo di poter affrontare solo dettagli di temi generali».

Ricavo tutte queste citazioni da Diario 1999 (pagine 336, euro 18,50), col quale Fazi avvia ora la pubblicazione del primo d’una lunga serie di taccuini, ove Zeichen annotava puntigliosamente i fatti della giornata – in primis gli appuntamenti conviviali e i film o spettacoli teatrali visti quasi ogni sera – insieme a sogni, poesie, pensieri (anche relativi al suo laboratorio poetico), considerazioni di costume o vere e proprie recensioni, fulminei ritratti. Dico Elido Fazi: il quale, come si evince da queste stesse pagine, gli fu munifico sodale e, dal 2000, anche editore di riferimento.

Quel che ne viene fuori è, innanzi tutto, un quadro della società letteraria romana di fine secolo, ma dipinto dalla mano speciale di chi, nello stesso tempo, riesce a stare dentro e fuori: tanto più biasimabile, allora, risulta nel libro la mancanza d’un indice dei nomi, che mi son dovuto compilare all’uopo. Ne faccio qualcuno qui: Alfredo Giuliani, Elio Pagliarani, Paolo Mauri, Nico Garrone, Renzo Paris, Alfonso Berardinelli, Giorgio Manacorda, Biancamaria Frabotta, Antonella Anedda, Romana Petri, Michele Mari, Gabriella Sica, Luca Archibugi, Eraldo Affinati, Fernando Acitelli, Sandro Onofri, Andrea Cortellessa, tra molti altri.

Su tutti, direi onnipresente, un carismatico Franco Cordelli, del quale vengono spesso riportate riflessioni e valutazioni: l’unico su cui non aleggia mai il venticello, non dico della maldicenza, ma d’una certa ferocia di giudizio cui Zeichen è particolarmente incline. Un vero colpo al cuore è stato, per me, ritrovare più volte citato un caro amico e coetaneo, lo scrittore Rocco Carbone, del quale rintocca quest’anno il decennale della scomparsa: e ritrovarlo così, proprio com’era, con quel puntiglio etico, con quella volontà d’onorare sempre la verità e di non tradire mai l’amicizia, che lo porta a litigare coi maestri Zeichen e Cordelli, in difesa d’una poetessa che i due mostravano di disistimare sino all’irrisione.

Conoscitore come pochi, tra i letterati, della politica internazionale e dei conflitti bellici internazionali – illuminanti qui, e davvero controcorrente, le non poche pagine sulla questione serba, senza dire di quelle dedicate alle «torture inflitte dagli indonesiani musulmani ai poveri cristiani di Timor Est» – Zeichen, anticomunista viscerale, per di più ossessionato da un’idea di «romanità» non mediterranea, ma spalancata sul nord Europa, aveva maturato, con largo anticipo sui tempi, un acuto sentimento di disillusione quanto ai destini del patriottismo e alla qualità della cultura nazionale. Così sul finanziamento di 70 miliardi generosamente disposto da Walter Veltroni, allora ministro della Cultura, per il cinema italiano. La data è mercoledì 17 febbraio: «Alla cena di stasera molti invocano sovvenzioni alla cultura nazionale, senza accorgersi che questa è un cadavere. L’identità italiana non esiste più». Si poteva dissentire con lui – a me capitava spesso –, ma nessuno può negargli, sul mondo e sulla storia, un’originalità di sguardo e di dettato, la stessa che ha sperimentato nella sua poesia: dentro quella lontananza da cui pare ancora ci giudichi e contempli.