Agorà

Storia. Valdesi, anche i pastori nella Grande Guerra

MARCO RONCALLI mercoledì 13 aprile 2016
«Per me personalmente è rimasto impresso come giorno funesto il momento in cui, all’inizio di agosto di quell’anno [1914], 93 intellettuali tedeschi fecero una sortita pubblica in sostegno della politica guerriera dell’Imperatore Guglielmo II e dei suoi consiglieri; intellettuali fra i quali io con delusione e dispetto dovevo trovare i nomi di pressoché tutti i miei maestri, maestri che fino a quel momento avevo in buona fede venerati». Con questo ricordo forse impreciso (quel «manifesto » in realtà era apparso in ottobre, mentre uno analogo – firmato da 29 intellettuali – in agosto, e in entrambi i documenti però c’erano due soli dei suoi maestri: Harnack e Herrmann), il giovane Karl Barth descriveva l’atteggiamento del protestantesimo in Germania davanti al primo conflitto mondiale, destinato a riaprire il divario – chiamato poi diastasi – tra il messaggio evangelico e la storia. E in Italia? Ad approfondire il ruolo non solo della teologia, ma anche delle Chiese evangeliche del Belpaese nella Grande Guerra – un ruolo per larga parte di sostegno, non estraneo a ragioni patriottiche, di risveglio religioso nazionalista, costato non poco – contribuì meno di due anni fa a Torre Pellice anche il LIV Convegno di studi sulla Riforma e i movimenti religiosi in Italia, i cui atti appaiono ora sotto il titolo La Grande Guerra e le Chiese evangeliche in Italia (1915-1918) a cura di Susanna Peyronel Rambaldi, Gabriella Ballesio e Matteo Rivoira (Claudiana, pp. 390, euro 22).  Aperta da un intervento di Sergio Rostagno – che ricorda il citato Barth insieme ad Albert Schweitzer, Karl Holl, John Dewey e dilata l’arco cronologico in esame indagando le voci della teologia protestante sin dopo il conflitto, facendo emergere i dissensi che poi opporranno i Paesi democratici a quelli totalitari – la raccolta appena pubblicata scandaglia ogni elemento storico pertinente al tema. Così si prende atto che – a ben guardare – la guerra venne condannata fermamente solo dai socialisti cristiani radicali e dai giovani teologi svizzeri come Barth, Brunner e Ragaz, mentre quasi tutti gli altri, pastori italiani compresi, si limitarono ad indicare nel cristianesimo la via d’uscita da una condizione assestata, o si spinsero in forme di «teologia del sacrificio» di stampo nazionalista per conferire ai soldati lo statuto di martiri, o ancora interpretarono la guerra (sarà così anche per il seconda conflitto) come un duello tra l’Occidente riformato-liberale e il luteranesimo germanico nazionalista. Per essere chiari, non essendovi ancora una diffusa cultura pacifista in Europa e con i principali pensatori protestanti pronti ad accettare la guerra da schieramenti opposti (Harnack o Paul Sabatier, per citare due esempi), di fronte all’intervento dei rispettivi Paesi i protestanti come i cattolici reagirono con l’assenso. Non solo: il mondo evangelico italiano, pur differenziato al suo interno, su questo punto espresse posizioni simili. Tutt’al più ci si interrogò sul Dio «totalmente Altro», il Dio di pace che finiva per meglio mostrarsi in guerra, senza stare dalla parte di nessuno.  Dalla teologia alla storia, il volume passa poi in rassegna ragioni, articolazioni e riserve del consenso, spostando l’attenzione sul costo della guerra, sui caduti nelle valli valdesi, sulla memoria del conflitto, con verifiche circa il patriottismo evangelico e il suo rapporto con lo Stato. C’è spazio per rileggere quegli anni attraverso riviste specialistiche come Bilychnis, edita dalla Facoltà teologica battista di Roma (dove a favore dell’impegno cristiano in una guerra giusta, a fianco dell’Intesa, si affaccia l’argomentazione della causa armena), o divulgative come il settimanale La Luce (in cui a fatica ci si imbatte in giudizi univoci), vero osservatorio dell’assistenza morale e spirituale ai valdesi in armi. Un tema esteso, poi anche agli orfani, o alla Chiesa metodista, grazie ad altre ricerche che, nella cornice del passaggio dal neutralismo all’interventismo (Andrea Annese), si ferma sugli aiuti dispensati dall’American Waldensian Aid Society (Luca Pilone), sulle «case del soldato» evangeliche (Irene Guerrini e Marco Pluviano), sui convitti valdesi di Torre Pellice e Pomaretto (Elena Dellapiana e Annalisa Pesando). Gli altri contributi si concentrano sugli elenchi degli uomini mobilitati, sui caduti e sul prezzo di sangue nelle fonti militari (Silvia Facchinetti), sulla vita nelle parrocchie valdesi durante la guerra attraverso le relazioni dei concistori e i documenti sinodali, oltre agli organi di stampa (Giorgio Tourn e Gilberto Clot). Ecco quindi la memoria della guerra (Samuele Tourn Boncoeur sui monumenti del territorio valdese e la celebrazione del lutto nelle valli attraverso una simbologia poco connotata da rimandi religiosi), che in seguito diventa mito (Giorgio Rochat, appunto, sul mito dell’alpino). Così La Grande guerra e le Chiese evangeliche in Italia fa emergere dall’analisi di tanti dati aggregati quello che fu per tutti un evento traumatico, pur accettato al suo avvio con un consenso interconfessionale dal quale presero distanza, salvo rare eccezioni, le sole Chiese evangeliche di tradizione pacifista come i mennoniti o i quaccheri. Di fatto anche i valdesi italiani, minoranza nello Stato unitario, considerarono quasi tutti la guerra come compimento dell’epopea risorgimentale.  Ne è esempio paradigmatico il moderatore Ernesto Giampiccoli, tratteggiato in queste pagine da Franco Giampiccoli grazie ai copialettere custoditi nell’Archivio storico della Tavola valdese; il suo convinto patriottismo e il pragmatismo organizzativo sono utili a capire i comportamenti della Chiesa valdese, che chiese per i suoi pastori titolo e funzioni di cappellani militari evangelici (con gli stessi gradi, diritti e doveri dei colleghi cattolici). A loro il compito di assistere le poche migliaia di evangelici sparsi nei battaglioni alpini Pinerolo e Fenestrelle, e in vari corpi d’armata, schierati fedelmente «nell’amore alla patria comune» e «pronti a fare serenamente il loro dovere». Nel segno di un nazionalismo che vinceva sul cristianesimo universale.